Nel corso degli ultimi quindici anni si è manifestato, con intensità crescente, un flusso migratorio dalle regioni meridionali verso il Centro-Nord e/o l’estero. La cronica debolezza della domanda di lavoro meridionale è all’origine di questo fenomeno. Lo sottolinea il rapporto Svimez che sarà presentato lunedì prossimo in Senato.
All’interno di questo trend, che, come sottolineato dalla Svimez nei suoi Rapporti sin dal 2010, si caratterizza per una rilevante crescita della cosiddetta migrazione intellettuale, se ne è affiancato un altro consistente nel trasferimento di un numero crescente di giovani meridionali che vanno a studiare in università localizzate nelle regioni centrosettentrionali. Si tratta in sostanza della decisione di anticipare la decisione migratoria già al momento della scelta universitaria, con l’obiettivo di avvicinarsi a mercati del lavoro che vengono ritenuti maggiormente in grado di assorbire capitale umano ad alta formazione.
“È evidente che la perdita di una quota così rilevante di giovani ha, già di per sé, un effetto sfavorevole sull’offerta formativa delle università meridionali – rileva il Direttore SVIMEZ, Luca Bianchi -. Ben più gravi, tuttavia, sono le conseguenze sfavorevoli che derivano dalla circostanza che, alla fine del periodo di studio, la parte prevalente degli studenti emigrati non ritorna nelle regioni di origine, indebolendo le potenzialità di sviluppo dell’area attraverso il depauperamento del cosiddetto capitale umano, uno degli asset più importanti nell’attuale contesto”.
Accanto a questo effetto, “di più lungo periodo” e di difficile quantificazione, ve ne è un altro, più immediato, probabilmente di minore impatto, ma non per questo trascurabile. “Precisamente – sottolinea Bianchi – la perdita di una quota così rilevante di giovani ha due implicazioni: una minore spesa per consumi privati espressa dai residenti (in diminuzione) all’interno dell’area; una minore spesa per consumi collettivi afferenti al capitolo istruzione. In altre parole, la perdita di questo stock di giovani implica che nel Sud vi sia una minore spesa privata per consumi e un’altrettanta inferiore spesa per istruzione universitaria da parte della P.A. (che in Contabilità nazionale va sotto la voce consumi collettivi)”.
Nell’anno accademico 2016/2017, i meridionali iscritti all’Università, secondo quanto rende noto Svimez, sono complessivamente 685 mila circa, di questi il 25,6%, pari a 175 mila unità, studia in un Ateneo del Centro-Nord. La quota, invece, di giovani residenti nelle regioni del Centro-Nord che frequenta un’Università del Mezzogiorno è appena dell’1,9%, pari a 18 mila studenti. Ne deriva, quindi, un saldo migratorio netto universitario pari a circa 157.000 unità. Per offrire un ulteriore termine di paragone, nello stesso A.A. in tutte le università del Sud risultavano iscritti 509.000 studenti. Il movimento “migratorio” per fini di studio ha interessato, quindi, circa il 30% dell’intera popolazione rimasta a studiare in atenei meridionali. Gli studenti “emigrati” per motivi di studio rappresentano, inoltre, circa lo 0,7% della popolazione residente meridionale.
Le regioni meridionali che si caratterizzano per i maggiori flussi in uscita in termini assoluti sono la Sicilia e la Puglia, con oltre 40 mila giovani che studiano al nord, mentre in termini di percentuale su totale degli iscritti, i tassi migratori universitari più elevati riguardano le regioni più piccole del Sud, Basilicata e Molise con oltre il 40%, la Puglia e la Calabria con il 32% circa e la Sicilia con il 27%.
“Si è poi proceduto a stimare l’impatto economico del trasferimento di 157 mila studenti meridionali al Nord in termini impatto negativo derivante dai minori costi sostenuti dagli atenei del sud, a causa dall’emigrazione studentesca – incalza il Direttore SVIMEZ – Lo spostamento degli studenti causa una riduzione dei costi sostenuti dagli atenei per i diversi corsi di studio (costi docenti, costi servizi didattici, costi delle infrastrutture). Per quantificare queste risorse è stato preso in considerazione il parametro del costo standard, alla base dei criteri utilizzati dal MIUR per finanziare le istituzioni universitarie. La cifra stimata è di circa un miliardo annuo di minore spesa della PA nel Mezzogiorno dovuta alla iscrizione fuori circoscrizione di 153 mila studenti meridionali”.
È stata, infine valutata, la spesa per consumi privati attivata dagli studenti meridionali che studiano al Centro-Nord per gli alloggi e per le principali voci del costo della vita (prodotti alimentari, fornitura di acqua, energia e gas, spese sanitari, trasporti e comunicazioni) distinte, in base alle tabelle ISTAT, per città di residenza. Si fa presente che tale costo medio annua è profondamente differenziato e va dal valore massimo di 4.700 euro di chi studia a Milano ai 1.700 euro di Cassino e Vercelli. Il valore complessivo dei consumi privati che, per effetto della migrazione universitaria, viene trasferito dal Sud al Nord è di circa 2 miliardi.
L’emigrazione studentesca causa, dunque, in termini di impatto finanziario una perdita complessiva annua di consumi pubblici e privati di circa 3 miliardi di euro. A partire da queste cifre, si può fare un ulteriore passo avanti. “Con il modello econometrico bi-regionale della SVIMEZ si può valutare l’impatto che questa minore spesa in consumi (privati e collettivi) ha sul livello del Pil meridionale – conclude Luca Bianchi – considerando oltre agli effetti diretti anche gli effetti indiretti e indotti da questa minore spesa sull’occupazione locale e quindi sui redditi. Nel 2017, il reddito aggregato meridionale è risultato inferiore di circa 0,4 punti percentuali a quello che si sarebbe avuto trattenendo sul territorio i 153 mila studenti emigrati”.