KIEV (UCRAINA) (ITALPRESS) – L’anno che ha cambiato il mondo e che rischia di diventare un punto di non ritorno nei rapporti fra le potenze internazionali. Era l’alba del 24 febbraio 2022. Gli americani, da settimane, avevano avvertito Zelensky e il suo entourage di un’invasione imminente ma in molti, a Kiev e in buona parte del Paese, giudicavano esagerato l’allarme da Oltreoceano.
Qualcuno, a dire il vero, aveva già preparato i bagagli ma fino al 23 sera molti ristoranti, nella capitale ma anche a Kharkiv e a Odessa, erano ancora strapieni. Alle 5 di mattina del giorno dopo, invece, l’Ucraina sprofonda nel dramma. Chi – ed erano la maggioranza fra gli analisti occidentali – aveva previsto lo scoppio della guerra si aspettava un’operazione strategica a sud-est, nel tentativo di conquistare tutto il Donbass oltre alle parti già annesse otto anni prima. L’attacco, invece, è concentrico e sotto i missili ci finisce tutto il Paese.
Il grosso delle forze, in ogni caso, Putin lo concentra a nord: si avvale delle basi in Bielorussia per tentare la calata verso Kiev, distante una cinquantina di chilometri.
L’avanzata inizialmente non trova resistenza e qualcuno ipotizza la caduta della capitale in pochi giorni, altri in qualche settimana. Dopo un iniziale smarrimento, però, le forze ucraine si riorganizzano e grazie alla strenua resistenza nell’aeroporto militare di Hostomel, da dove i russi volevano assaltare i palazzi del potere di Kiev, riescono ad evitare la presa della capitale. E il conflitto prende un’altra piega. Chi pensava a un’Ucraina armata di bombe molotov e cavalli di frisia si accorge invece che l’esercito, dopo il 2014, è stato potenziato e professionalizzato.
E la Russia ben presto si impantana.
I successi militari di Mosca si concretizzano nella conquista di quella striscia di terra che va dalla martoriata Mariupol, rasa quasi completamente al suolo, fino a Kherson (poi abbandonata): più o meno tutta la costa del Mare d’Azov, ma nelle retrovie si continua a combattere.
In Donbass l’avanzata è lenta è piena di insidie: Donetsk e Lugansk, i due capoluoghi della regione, di fatto erano già in mani russe dal “dopo Maidan” mentre i due grandi obiettivi, Slaviansk e Kramatorsk, sono tuttora saldamente controllate da Kiev. Ma la batosta più pesante, dopo il ritiro in aprile dalla regione della capitale, il Cremlino l’ha subita nell’oblast di Kharkiv, liberato quasi completamente dagli ucraini a settembre.
Nel primo mese le forze di Putin erano arrivate ad un passo dalla seconda città del Paese, oggi invece si ritrovano poco distanti dalle posizioni antecedenti al 24 febbraio.
Ma se tatticamente la guerra si sta rivelando un insuccesso, se non altro per quelli che erano i sogni imperiali dello zar, dall’altro lato gli obiettivi di Kiev, che vorrebbe riprendersi per intero le aree occupate, pari al 20% del territorio, appaiono irrealistici. Nonostante i corposi aiuti militari occidentali, l’Ucraina non ha la forza per riconquistare il sud del Donbass e tanto meno la Crimea.
E’ per questo, ed anche per l’alto numero di caduti al fronte, che un negoziato serio e costruttivo sarebbe l’unica soluzione per porre fine alla carneficina. Non si conosce con esattezza il numero delle vittime: l’Onu parla di oltre 7 mila morti fra i civili ma in realtà potrebbero essere molti di più; Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ritiene che siano almeno 20 mila. Impossibile, poi, stimare i caduti fra i militari ma sommando quelli dei due eserciti si arriverebbe a 200 mila. La guerra nei Balcani, in cinque anni, ne aveva fatti di meno.
Eppure, ad oggi, non esistono trattative per porre fine al conflitto. Ci ha provato più volte Erdogan ma ha fallito, ed il sultano adesso ha altri problemi in patria a cui pensare. La bozza cinese difficilmente scontenterà Putin e pertanto sarà irricevibile a Kiev. Il vecchio continente tace mentre gli Stati Uniti appaiono preoccupati per le armi atomiche di Mosca ma hanno appena stanziato l’ennesima fornitura militare per l’Ucraina.
Nel frattempo, in attesa di una voce autorevole fuori dal coro, c’è un Paese che è sotto attacco da un anno. Che è fiero e orgoglioso, non vuole mollare di un centimetro, si è conquistato una credibilità internazionale ed un ruolo nella storia impensabile fino a un anno fa. Che plaude il proprio presidente e che dal giogo russo si è liberato (forse) per sempre. Ma che soffre ormai da 365 giorni, piange i propri figli morti al fronte e non sa cosa gli riserverà il futuro. Nemmeno noi.
– foto agenziafotogramma.it –
(ITALPRESS).