La città di Roma è oggi un “crocevia di affari”, e “punto di incontro privilegiato tra organizzazioni criminali italiane e straniere. Nella Capitale sono operativi, oltre ad aggregati criminali di origine locale, anche gruppi strutturati, riflesso delle organizzazioni mafiose calabresi, siciliane e campane, in grado di gestire affari che spaziano dal traffico di stupefacenti, alle estorsioni, all’usura e riciclaggio”. E’ uno dei passaggi della relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia.
Il radicamento nella Capitale di questi gruppi criminali, spiega la Dia, “è stato facilitato dall’inserimento di propri referenti nei circuiti economici legali, anche attraverso la costituzione di società collegate e gestite da esperti professionisti, attive nei settori degli appalti pubblici e dell’acquisizione indebita di finanziamenti statali”.
L’interazione fra le varie componenti criminali “ha anche favorito il dilagare dell’usura – da sempre attività illecita tipica della delinquenza romana – quale altra appetibile modalità di reinvestimento. Il fenomeno usurario e le connesse azioni intimidatorie sono ulteriormente proliferati anche in ragione del protrarsi di una difficile congiuntura economica, come quella attuale, che investe molteplici settori”, spiega la Dia. Accanto all’usura, un consistente giro di affari gravita intorno ai settori degli stupefacenti, delle attività estorsive e delle merci contraffatte.
Le modalità di infiltrazione nella Capitale non si realizzano con un vero e proprio controllo del territorio, ma attraverso quelli che gli investigatori definiscono “saldi contatti con i sodalizi di origine” e “forme di convivenza fra tutte le ‘anime’ mafiose presenti nella Capitale, ivi comprese quelle di matrice romana”.
Numerose indagini hanno evidenziato le relazioni tra i clan storici della città, a loro volta in affari con esponenti delle organizzazioni calabrese, siciliana e campana, da tempo stabilitesi nella Capitale, le quali “hanno tentato di occupare progressivamente il vuoto venutosi a creare a seguito della disgregazione della Banda della Magliana, per sviluppare reti e basi logistiche utili, all’occorrenza, anche per offrire rifugio ai latitanti”.
La strategia camaleontica attuata dai gruppi mafiosi ha reso più difficile, nel tempo, comprendere e far emergere il fenomeno, favorendo in tal modo anche i tentativi di condizionamento delle amministrazioni locali: “persino un gravissimo evento come lo scioglimento per infiltrazione mafiosa degli organi elettivi, nel 2005, del Comune di Nettuno – alle porte di Roma – non è riuscito ad ingenerare, nella collettività, una piena consapevolezza del fenomeno mafioso e la capacità di riconoscerlo sin dai primi segnali”, spiega la Dia, secondo cui “le indagini confluite nell’operazione Mondo di Mezzo hanno restituito un quadro complesso, frutto di una evoluzione della criminalità romana tradizionale, ormai assimilabile alle mafie classiche, perché, come queste, si avvaleva della forza di intimidazione derivante dal vincolo di appartenenza, pur rimanendo aderente alla realtà della Capitale ed al suo tessuto economico-imprenditoriale”.
Peraltro “la consistenza delle grandi opere pubbliche da realizzare rappresenta, in un contesto così complesso, un potenziale catalizzatore di condotte corruttive, anche non direttamente riconducibili alla criminalità organizzata”.
Un modello criminale peculiare “è poi rappresentato – si legge nella relazione della Dia – dai sodalizi facenti capo a famiglie una volta nomadi, ma oggi prevalentemente stanziali, che insistono su alcune periferie romane e sul litorale di Ostia. Gruppi che hanno saputo ricercare, nel tempo e con successo, relazioni criminali altamente qualificate con quelli più strutturati di matrice mafiosa”.