Dodici persone sono state arrestate dalla Guardia di finanza di Prato, su ordine della Dda di Firenze, nell’ambito dell’operazione “Golden wood”. Gli indagati, raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare, devono rispondere di associazione a delinquere e riciclaggio di danaro al fine di favorire “Cosa nostra”. Dei dodici arrestati, sei finiti in carcere e altrettanti ai domiciliari, dieci sono originari di Palermo e provincia, due della Puglia. Sette sono residenti nel capoluogo siciliano, due a Prato, due a Campi Bisenzio ed uno a Sesto Fiorentino, in provincia di Firenze.
Le Fiamme gialle hanno proceduto anche al sequestro di 15 aziende, di decine di conti correnti e disponibilità finanziarie nonché a 120 perquisizioni domiciliari e locali. Gli arrestati e gli ulteriori indagati, in totale 60 persone, devono rispondere, a vario titolo, di associazione a delinquere finalizzata alla commissione dei reati di riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, nonché di intestazione fittizia di beni, contraffazione di documenti di identità e sostituzione di persona. Contestata anche l’aggravante di avere agevolato l’attività di un’associazione mafiosa, nel caso di specie la “famiglia mafiosa di Corso dei Mille” di Palermo.
Le indagini hanno consentito agli investigatori di accertare l’operatività di un’associazione a delinquere, ben organizzata e strutturata, che, al fine di immettere nel circuito economico denaro di provenienza illecita, avrebbe creato e gestito – direttamente e tramite una serie di prestanome – una galassia di imprese con sedi in tutto il territorio nazionale ed in particolare in Toscana, Sicilia e Lazio (in totale 33), in parte reali ed effettivamente operanti ed in parte di fatto inesistenti in quanto sprovviste di qualsiasi idonea struttura imprenditoriale. Aziende tutte con oggetto sociale il commercio di pallets, ovvero le pedane in legno comunemente utilizzate per il trasporto e la movimentazione di vari tipi di materiale.
Lo scopo dell’organizzazione sarebbe stato quello di riciclare, ostacolando l’identificazione della provenienza illecita, i proventi degli affari della “famiglia mafiosa di Corso dei Mille” di Palermo, capeggiata da Pietro Tagliavia, condannato con sentenza irrevocabile per il reato di associazione mafiosa, figlio di Francesco Tagliavia, già esponente di vertice del mandamento di Brancaccio, condannato anche lui all’ergastolo sia per la strage di via d’Amelio a Palermo che per quella di via dei Georgofili a Firenze.
Gli indagati si sarebbero messi a completa disposizione di Pietro Tagliavia, nel periodo in cui era detenuto presso la casa circondariale di Prato, tanto da reperirgli nel 2017 un’abitazione a Campi Bisenzio (FI) dove aveva poi scontato gli arresti domiciliari e da fornirgli, clandestinamente ed in violazione delle prescrizioni imposte dall’autorità giudiziaria, un telefono con il quale mantenere i contatti anche con i propri affiliati in Sicilia.
La provenienza dalla Sicilia di parte del denaro riciclato, fanno sapere gli inquirenti, ha trovato conferma anche in molte conversazioni telefoniche intercettate e nei successivi riscontri investigativi. Nel corso delle indagini sono stati inoltre rilevati movimenti di denaro, evidentemente “ripulito”, a favore del capo-cosca palermitano.
Il riciclaggio ha riguardato anche i proventi dei reati di emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, commessi sia nell’ambito dei rapporti tra le imprese gestite dal clan che a favore di aziende ad esso estranee; queste ultime versavano – tramite bonifico – il corrispettivo degli importi falsamente fatturati, che tornavano poi nella loro disponibilità, in contanti, decurtati della percentuale del 10% a titolo di commissione.
In virtù di tali operazioni, che gli stessi indagati chiamavano – nelle conversazioni intercettate – “fantasmini”, le imprese beneficiarie estranee al sodalizio – oltre a garantirsi utili provviste “in nero” – potevano trarre evidenti vantaggi fiscali e porsi, quali concorrenti sleali, in posizione privilegiata nei confronti dei competitor del settore commerciale di riferimento.
Per l’organizzazione, invece, oltre al consistente guadagno, tali ulteriori flussi finanziari e commerciali, intrecciandosi con gli altri, contribuivano a rendere ancor più complicata la ricostruzione dell’operato delle società e delle ditte coinvolte.
L’importo totale delle fatture false emesse ed utilizzate ammonterebbe ad oltre 50 milioni di euro.
La contestazione dei reati di riciclaggio ed autoriciclaggio concerne, negli anni tra il 2015 ed il 2018, una somma complessiva di circa 40 milioni di euro.
L’associazione a delinquere avrebbe operato realizzando un imponente giro di denaro, per un importo totale di oltre 150 milioni di euro, caratterizzato da continue operazioni di accredito e di addebito di somme anche ingenti, giustificate quali pagamenti di fittizie forniture di merce, tramite documentazioni contabili non di rado artatamente predisposte a posteriori.
Dopo vari passaggi, talora – per confondere ancor di più le acque – intervallati da pagamenti di transazioni commerciali almeno in parte reali, per ultimo le somme erano quasi sempre prelevate in contanti dai conti di ditte inesistenti; a ciò provvedevano, mediante reiterati e frazionati prelevamenti anche nel corso della stessa giornata, emissari dell’organizzazione, ignari della presenza discreta dei Finanzieri che, poco distante, osservavano, annotavano e registravano.
In alcuni casi la provvista creata sarebbe stata impiegata per eseguire ulteriori movimentazioni di denaro a favore di altre imprese del gruppo.
Il vorticoso giro di denaro, rendono noto gli investigatori, ha trovato puntuale conferma nello sviluppo di 36 specifiche segnalazioni di operazioni sospette, rigorosamente riscontrate dai Finanzieri del Gruppo di Prato, pervenute – tramite il Nucleo Speciale di Polizia Valutaria – dagli operatori finanziari a ciò obbligati ai sensi della vigente normativa antiriciclaggio.
Centrale, rispetto alla contestazione del reato di riciclaggio, il ruolo affidato alle numerose ditte inesistenti, appositamente create, da un lato per agevolare l’associazione mafiosa denominata “Cosa nostra” attraverso la canalizzazione di un fiume di denaro sui conti correnti opportunamente accesi, gestiti e svuotati, per ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di tali somme, dall’altro per consentire – attraverso il giro di fatture false – indebiti vantaggi fiscali e posizioni dominanti sul mercato.
Emblematico il caso di due cittadini dello Sri Lanka, titolari di altrettante ditte individuali – con oggetto sociale il commercio di pallets – con sedi dichiarate a Prato, ma di fatto inesistenti, sui cui conti correnti in circa due anni sono transitati, complessivamente, più di 20 milioni di euro.
Il sistema illecito emerso, secondo quanto accertato dagli investigatori, ruotava attorno a due gruppi familiari di origine siciliana, imparentati tra loro, stanziati in Toscana ed in Sicilia.
Fondamentale il ruolo assunto da uno dei dodici arrestati, un Consulente del lavoro già sospeso dal proprio ordine professionale, incaricato della gestione finanziaria di alcune imprese utilizzate dal clan, nonché degli aspetti amministrativi, comprese le formalità inerenti alla costituzione delle ditte inesistenti, cui provvedeva utilizzando anche falsi documenti di identità.
L’associazione a delinquere contava inoltre su una fitta rete di collaboratori, molti dei quali ricoprivano il ruolo di fittizi titolari di ditte inesistenti.
(ITALPRESS).