“Un piano del genere va gestito con diverse centinaia, se non un migliaio di manager, di persone chiave che vanno mobilitate per avere speranza di successo”. Queste le parole di Mario Mantovani, presidente di Cida e Manageritalia, intervistato da Claudio Brachino per la rubrica Primo Piano dell’agenzia di stampa Italpress, parlando del Recovery Plan e auspicando un coinvolgimento delle competenze manageriali dopo il passaggio in Parlamento.
Cosa fanno queste associazioni in concreto e di cosa vi occupate?
“Manageritalia è quella che come le altre federazioni che aderiscono alla Cida ha in corpo gli associati, quindi è un sindacato che rappresenta i dirigenti e rappresenta direttamente i dirigenti nella contrattazione nazionale e nell’attività quotidiana di servizi di rappresentanza”.
Anche i manager hanno bisogno di tutela sindacale?
“Siamo lavoratori subordinati, questo prevede un certo tipo di organizzazione che abbiamo interpretato in maniera originale e innovativa. Cida raggruppa le federazioni dei dirigenti dei diversi settori privati e pubblici, quindi oltre a Manageritalia c’è Federmanager e le varie organizzazioni del pubblico, i dirigenti medici, della scuola e di altri settori pubblici e privati. Cida fa soprattutto una attività di rappresentanza”.
In questi giorni i dirigenti medici e scolastici staranno bussando alle porte?
“Sono da oltre 1 anno veramente in prima linea, ci siamo tutti perchè nelle nostre aziende abbiamo lavorato per trasformarle in poche settimane e portarle dal 25% di smart working all’82, però i medici e i dirigenti scolastici sono in prima linea da un tempo molto lungo e qualche segno di stanchezza comincia a vedersi”.
Sul Recovery Fund la vostra critica è che a livello di governance non vi piace, la vostra proposta?
“Intanto che ci sia una governance, quando ho partecipato agli Stati Generali al Presidente Conte ho fatto una domanda: vorrei capire in che modo pensate di gestirlo, con quali persone e con quale organizzazione. Penso che in qualunque azienda sia la prima domanda, ovvero come imposto un piano così unico nella storia del nostro Paese, con che tipo di governance, allora non ottenni risposte e purtroppo tutt’ora non mi sembra ci siano”.
La vostra proposta qual è?
“Credo che la governance debba partire da una struttura governativa, legata a quella ministeriale. Ci sono ministeri più strutturati che hanno anche risorse umane maggiori, penso al Mef dove c’è un know how nel gestire questo tipo di piani che è maggiore, l’idea è inserire competenze manageriali in quella struttura. Serve poi una struttura vera e propria di project management da collocare in un punto unico perché possono avere una visione trasversale e completa. Ma il vero problema è che un piano del genere va gestito con diverse centinaia, se non un migliaio di manager, persone chiave che vanno mobilitate nel Paese per avere speranza di successo. Bisogna arrivare nei vari filoni di attività abbastanza in profondità, mettere 10-15-25 persone al vertice di una macchina amministrativa che è nata per fare altro non funziona”.
Vogliamo dire una volta per tutte che abbiamo bisogno della competenza e che la gente deve fidarsi della competenza?
“Questo è sicuramente necessario ma faccio un esempio che funziona anche in azienda, in una azienda grande e strutturata abbiamo gli azionisti e i manager, i politici fondamentalmente hanno il ruolo che in azienda hanno gli azionisti, devono rappresentare ciò che è il bene per il Paese, quello è il ruolo fondamentale che incarna il Parlamento. Io credo che delle scelte di priorità di spesa, di progetti debbano passare dal Parlamento altrimenti davvero la domanda è ma cosa li abbiamo eletti a fare? Nell’esecuzione servono delle competenze”.
Questo piano ha l’obiettivo di dare una struttura più dignitosa alle prossime generazione, dobbiamo dare loro qualcosa e nei numeri letti sono confermati 100 miliardi tra green e innovazione tecnologica. Vi sembrano soldi giusti e proposte concrete?
“Il grande pregio del Next Generation Eu è che traccia due obiettivi di visione prospettica su cui è difficile non essere d’accordo che siano le priorità, il passaggio complessivo è declinarli in progetti e qui effettivamente nasce la difficoltà del nostro Paese. Da un lato credo sia stato anche abbastanza importante recuperare alcune progettualità degli anni precedenti, poi sono convinto è che sulla rivoluzione green si sia già giunti a un passaggio in cui l’industria e i diversi settori hanno compreso che è una evoluzione. L’innovazione digitale ci cambia la vita, la preoccupazione è che molte innovazioni che vengono presentate come tali non abbiano questo impatto. In alcuni il rischio è che andiamo a inseguire delle pseudo innovazioni che alla fine sono volatili”.
Vi aspettate che dopo un passaggio doveroso in Parlamento le varie parti sociali e le rappresentanze vengano convocate oppure no?
“Noi ci aspettiamo sempre di essere chiamati, lo stile è sempre stato chiamare, interloquire a distanza, in forma scritta e orale ma procedere sostanzialmente con una propria agenda che non tiene conto, se non in rarissimi casi e per pochissime organizzazioni, delle esigenze espresse, cioè non c’è mai stata una reale interlocuzione con questo governo sui temi di sostanza”.
C’è chi dice che l’Italia ha una disuguaglianza fattuale tra i pubblici dipendenti e il resto del Paese che non viene concepito da una maggioranza che si dice abbia una visione più per il pubblico? Un giudizio sullo smart working?
“Io parto da un ragionamento che il lavoro oggi è organizzato, c’è bisogno di organizzazione molto più sofisticata. Questa distinzione netta fatta nel Paese tra lavoro subordinato molto tutelato e rigido e lavoro autonomo poco tutelato e molto flessibile ha mostrato i suoi limiti molto chiaramente da entrambe le parti. Da un lato con lo smart working vengono meno quei capisaldi degli orari di lavoro tipici dei lavori rigidi, da un lato il lavoro semi autonomo si mostra per quello che è con nessun grado di autonomia. Essendo privo di tutele di rappresentanza, in molti casi diventa un problema sociale che dobbiamo coprire con delle mance o con dei tentativi di mettere in piedi ammortizzatori sociali partendo da zero in una fase critica”.
Nella Pubblica Amministrazione come funziona?
“Perchè sia effettivamente smart serve una riorganizzazione molto digitalizzata, come è la Pa? Dove è organizzata in maniera accettabile lo smart working funziona e ci sono casi di eccellenza, dove non lo è le persone stanno a casa rispondono alle mail, hanno il telefono deviato e basta”. La spaventa il futuro di questo lavoratore da solo a casa davanti al pc? “Funziona un mix. Tra i diritti del lavoratore smart secondo me dovrebbe esistere quello di avere anche un luogo di lavoro dove si può recare, ci sono alcune idee che si stanno portando avanti come creare dei centri di co-working in località periferiche dove molti lavoratori lavorano e possono riunirsi, un luogo che ricrei la comunità di lavoro”.
Tra le cose che ci chiede l’Ue spesso passa in secondo piano la riforma della giustizia ma anche quella fiscale. Quello dell’equità fiscale è un tema che vi sta a cuore.
“Credo che la via sia molto stretta, lo dobbiamo riconoscere, in Paesi che hanno un welfare più o meno sviluppato come il nostro dove siamo la cultura del welfare, questo chiede inevitabilmente una tassazione elevata. Tempo che quella delle tasse basse sia una illusione che ci dobbiamo togliere e che dobbiamo anche smettere anche di raccontare”.
Quindi le proposte dell’opposizione sul fisco sono inattuabili?
“Mi sembrano inattuabili, è chiaro che sono messaggi che colgono nel segno perchè nessuno di noi ama pagare le tasse, però nessuno è disposto a rinunciare a una serie di servizi che abbiamo, quindi togliamoci l’idea che le tasse possono diventare realmente basse. Andrebbe redistribuita sui tanti regimi speciali, questo credo chiede l’Europa, non abbiamo una tassazione omni comprensiva e dovremmo allineare e rendere neutrale la tassazione a seconda del lavoro che facciamo. Credo però che sia un ginepraio e che nel momento in cui uno apre il calderone si scontri contro una serie di proteste e difficoltà delle varie categorie, ma è una domanda da farsi da parte di un politico”.
I movimenti politici anti casta hanno avuto successo dicendo ‘Uno vale uno’, lei invece ha aperto a un mondo di gente competente.
“Il difetto dell’elite è non essere in grado di dare una visione di futuro migliore di chi oggi non è nelle condizioni di vedere un futuro migliore. La nostra generazione ha iniziato a lavorare negli anni 80, ci siamo occupati troppo delle nostre aziende e poco della cosa pubblica e adesso stiamo vedendo che ne paghiamo un po’ il prezzo”.
(ITALPRESS).