MILANO (ITALPRESS) – Regista, sceneggiatore e scrittore, Pupi Avati ha trascorso tutta la sua vita a raccontare storie. «Mi considero un narratore, provengo da quella cultura remota dell’alto medioevo e contadina, che si basava completamente sulla narrazione orale. Ho trascorso i primi anni della mia vita in campagna, quindi capite bene come la favola contadina fosse l’elemento educativo e didattico, il deterrente per tenerci buoni. Inoltre, c’erano quei riti di una religiosità preconciliare, uno fra tutti le sedute spiritiche. Ricordo che gli adulti ci mettevano a letto per poi evocare i defunti attraverso queste pratiche che oggi appaiono anacronistiche, ma che a noi bambini hanno stimolato la creatività, la fantasia e l’immaginario», dichiara Avati a Non Stop News su RTL 102.5.
Una passione, quella per il cinema, inconsapevolmente ereditata. «Mia madre aveva il sogno di diventare attrice, lo abbiamo scoperto solo dopo la sua morte grazie ai diari che teneva. Non ce l’aveva mai rivelato. Ha avuto due figli, io e mio fratello, che hanno fatto e decine di film. Immaginate quante volte avrei potuto utilizzare mia madre, ma non sapevo che fosse un suo sogno», racconta. «Nel ’68 si poteva dire e fare qualsiasi cosa. Sono stati anni misteriosi e al contempo esaltanti. Quando partecipo a incontri pubblici, ricostruisco quei dialoghi tra me e i miei amici al Bar Margherita, quando ci chiedevamo “perchè non facciamo anche noi un film?”. Uno di noi era un fruttivendolo, un altro un custode dei musei civici, un altro ancora montava antenne, quindi il livello culturale era prossimo allo zero. Tuttavia, ci abbiamo provato».
“L’orto americano”, in nuovo romanzo di Pupi Avati, è il racconto di un aspirante scrittore che va in America “assieme ai suoi morti”. A RTL 102.5, Pupi Avati spiega: «Questo è completamente autobiografico nel senso che con l’età, dopo la morte di mia madre, ho ereditato una sua abitudine. Invece di pregare la sera, andavo a salutare i suoi morti, una dozzina di piccole fotografie appese alla parete di fronte al suo letto. Mi sono appropriato di quelle fotografie, le ho fatte diventare duecentocinquanta perchè nel frattempo, ahimè, l’anagrafe fa sì che le persone che ti sono accanto scompaiano sempre più spesso. L’altro ieri è mancata Marina Cicogna, ad esempio. Auguro la buona notte e dico i loro nomi, che ho elencato sul mio computer per poterli ricordare tutti. Questo basta a produrre in me una misteriosa serenità, una sorta di riconoscenza per quello che sono stati nella mia vita. Questa è una cosa che nessuno fa più, perchè ormai con la morte le persone vengono cancellate, come se non fossero mai esistite. Io faccio di tutto per trattenerle. Perciò il mio protagonista de “L’orto americano”, un aspirante romanziere, arriva a dire che più defunti hai e più racconti puoi creare, e in un certo senso è vero perchè significa che hai conosciuto molte vite».
Il più grande successo di Pupi Avati? Lo svela a RTL 102.5: «Sposare mia moglie, la ragazza più bella di Bologna. Lei vale più di tutti i film. Probabilmente in quel giorno ho pensato di essere la persona più felice del mondo. Siamo stati insieme per 59 anni, anche se l’età non aiuta nelle relazioni, dormiamo in camere separate e ci salutiamo attraverso dei mugugni, l’interlocuzione è ridotta all’essenziale. Tuttavia, certe volte la rivedo esattamente come era, e questo mi provoca una commozione fortissima. Questo è un miracolo della vita che trattiene il passato e il presente, se uno è disposto ad accoglierli». E la più grande delusione? «Sono una persona non frustrata, non ho mai fatto battuto incassi. Tuttavia, ho fatto 55 film. Non è un miracolo? Prima vendevo bastoncini di pesce e poi improvvisamente sono diventato un regista. Se uno si abbandona alla vita, come quando non sai nuotare e ti butti, l’acqua ti sorregge, ma ci devi credere».
-foto Agenzia Fotogramma-
(ITALPRESS).
Pupi Avati “Il mio più grande successo? Sposare mia moglie”
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