di Claudio Brachino
Il ricordo di Scaparro è per me il ricordo delle radici e del teatro che si mescola alla vita. L’ho rivisto poche volte negli ultimi anni. Una, in Puglia, entrambi premiati al Magna Grecia, una bella celebrazione culturale del nostro Sud voluta e fatta crescere da uno scrittore, Fabio Salvatore, e un’altra, a sorpresa, a Riccione. Non sapevo che il maestro avesse scelto la Perla della riviera romagnola come segretissimo buen retiro. Una suite, sempre la stessa, all’Hotel Corallo dove spesso a Pasqua porto la mia famiglia. Quello sguardo sul mare quasi d’inverno, senza gli ombrelloni schierati, è uno dei paesaggi dell’anima. C’ero venuto negli anni di fuoco delle disco, acerbo reporter a caccia di storie, personaggi e trasgressioni. Mi ci ero sposato una sera d’estate con una festa sulla sabbia che sembrava non dovere finire mai. Ma se Riccione è la mia quarta patria, dopo Roma e Milano, Viterbo è la terra dove sono nato. E lì, nella platea vuota dello splendido teatro dell’Unione conobbi nel 1987 il regista. Durante l’estate con il mio amico Paolo Pelliccia, un intellettuale prestato in quel momento alla politica, avevamo avuto una piccola ma brillante intuizione: proporre al Teatro di Roma, di cui Maurizio era Direttore, di venire a provare gli spettacoli da lui prodotti nella Tuscia. Le amministrazioni locali avrebbero sostenuto parte della spesa in cambio del libero accesso degli studenti dell’Università alle prove, più ovviamente un giorno di didattica con attori e registi. Quel settembre toccò niente di meno che a due giganti, Nikita Mikhalkov, già grandissimo regista russo, e Marcello Mastroianni, già nella storia del cinema italiano. Avevano avuto successo al cinema con Oci Ciornie e Scaparro li voleva di nuovo insieme per l’adattamento teatrale di un film , Partitura incompiuta per pianola meccanica ,che Nikita aveva tratto qualche anno prima da Cechov. Io ebbi l’onore di seguire le prove, dopo che il regista chiese il permesso alla troupe. Marcello era l’unico italiano, per gli altri, tutti russi, era necessario che io non violassi l’energia di gruppo raggiunta. Fui per mia fortuna, o meriti energetici inconsci, ammesso e così nacque un libro, il mio secondo e ultimo del genere dopo la commedia scritta con De Filippo per Einaudi: la macchina da presa teatrale, edizioni del Teatro di Roma. Lo presentò lo stesso Scaparro a Maratea il giorno prima del mio primo giorno in tv. La sera della prima, a Roma a cena fui praticamente assunto da Galliani, Publitalia sponsorizzava l’evento all’Argentina. Il teatro è una grande tela di destini, fuori e dentro il palco. Lo capisco bene ora a 36 anni di distanza, ora che la morte biologica del regista di tutti quei destini mette fine all’infinito sviluppo di quella tela. Ma la lezione rimane, al di là dei nostri limiti temporali materiali, al di là della sperimentazione e della commistione dei linguaggi, al di là della poetica dello Scaparro artista e manager. Di quello già molto si è scritto. Io chiudo questa lieve rivisitazione proustiana con l’altro e indimenticato mio maestro e so che a Maurizio farebbe piacere: chi cerca la forma trova la morte, chi cerca la vita trova il teatro. Firmato Eduardo.
foto: agenziafotogramma.it