Roberto Mancini è un garbato anarchico borghese (per Longanesi il concetto d’anarchia si poteva applicare ove vi fosse pensiero possibilmente libero) che ha realizzato un calcio rivoluzionario e tradizionale insieme: prima interpretando come rari maestri il ruolo di selezionatore, poi facendosi allenatore secondo istruzioni ricevute da due tecnici fantasiosi quanto tradizionalisti, Marino Perani – il mai compreso ex giocatore del Bologna con la vocazione di talent scout e maestro – e Vujadin Boskov – lo slavo senza drammi nè proclami – che prima d’altri mister esperti di marketing seppe parlare allo spogliatoio. A questa fortunata dote ricevuta in gioventù verdissima, Roberto aggiunse una virtù quasi esclusiva: un bon ton nato in famiglia, a Jesi, in un contesto tutto marchigiano di genio e regolatezza.
Una sera del 2008, a Pechino olimpica, parlando in tv con la
jesina Valentina Vezzali, le rammentai il già famoso concittadino pallonaro, e lei rispose: “Vuoi dire Federico II…”. (Tacqui, io, nato in un borgo modesto, nido di buona cultura ma privo di famosi 9 famigerati eroi del passato, tant’è che quando me ne andro’ potro’ aspirare almeno al nome in un pianello). Evidentemente la grande schermitrice non riteneva il calcio uno sport aristocratico, ma sbagliava: non nell’accezione piu’ vasta, che’ in realta’ il gioco del pallone ha una sua amorevole natura plebea fatta di bimbi poveri, di famiglie speranzose, di palle di stracci peraltro rotolanti anche sulla spiaggia di Ipanema e nei campetti tutt’erba e buche della periferia; ma se avesse conosciuto bene Roberto l’avrebbe scoperto baronetto di buone maniere, raffinato nei modi e nelle abitudini, un po’ troppo a’ la page con gli sciarponi nerazzurri, ma nella sostanza capace di gestire una squadra d’alto livello e una conferenza stampa piena di trabocchetti. Milano, pur avendogli dato molto, concedendogli la guida della Beneamata che lui ha ricambiato con successi importanti, ha rischiato di collocarlo in un pantheon minore per far posto, fra gli Immortali, a Jose’ Mourinho. Solare ingratitudine ma anche ignoranza, perche’ lo Specialone e’ un mago del marketing mentre il Mancio e’ un esperto di calcio. Ricordate quando si diceva – un po’ per scherzo un po’ per la cronaca – che nello scudetto della Sampdoria di Vujadin avevano messo mano anche Mancini, Vialli e Dossena? Oggi possiamo dire Mancini sicuramente. Ma lui, generoso, ha voluto vicino a se’, nei giorni del trionfo azzurro, Gianluca e le sue pene sperando di alleviarle insieme. Esperto – dicevo – perche’ Mancini il calcio lo ha vissuto istintivamente giovanissimo, ha aderito agli insegnamenti ricevuti, ma poi l’ha ricercato nei campi di allenamento e nelle partite, arrivando a studiarlo alla fonte, in Inghilterra. Come aveva fatto Vittorio Pozzo piu’ per curiosita’ e diletto finche’ trovo’ qualcuno che gli sfido’ la Patria Pallonara. In tempi in cui la Patria era molto richiesta. Come adesso. Ero a Palermo, l’altra sera, e alla “Favorita” dedicata al mio amico Renzo Barbera e’ andato in scena non solo un confronto calcistico ma un evento patriottico. Trentamila con l’Inno offerto dalla fanfara dei bersaglieri (guarda un po’) a veder l’Armenia – mai preceduta da titoli allarmanti e piuttosto da dieci successi di fila della Nuova Nazionale, nata dalle ceneri dell’Italia di sVentura – dicono di una gran voglia di azzurro e dell’immensa fiducia che ha guadagnato Roberto. Soprattutto perche’ non si vende inventore del calcio ma interprete di una disciplina tutta italiana, come fu per l’Alpino Bimondiale che stupi’ anche Adolfo Hitler, ai Giochi del Trentasei (lo dico perche’ la vittoria dei calciatori azzurri non era prevista, ritenendo egli, Adolfo, gli italiani omarelli da mandolino) con una squadra-a-sorpresa; proprio come la Nazionale del Mancio che nessun critico avrebbe mai realizzato, denunciandola anzi, insieme al suo autore, per
certe leggerezze che il mister stesso denuncia promettendo di
correggerle. Gia’, perche’ Mancini non e’ un caporale, un sergente di ferro, un colonnello alla RoccoViani (fa ridere la terminologia militare usata in un Paese dove non s’e’ mai vinta una guerra; da soli…) ne’ uno psicologo sottile alla Scopigno ma preferisco farlo somigliante – tenetemi, please – a Fulvio Bernardini che da giocatore era narciso, da allenatore tattico raffinato ma istintivo, non da quaderni e lavagne. Maturato alla Samp – ricordavo – Mancini e’ cresciuto e si e’ laureato alla azio, con la quale vinse il secondo tricolore attribuito a Eriksson (con Marchegiani, Boksic, Mihajlovic, Nesta, Simeone, Stankovic, Couto, uno squadrone) ma anche allora si insinuo’ la “tutela” del Mancio, sicche’ fu facilissimo per lui farsi frettolosamente allenatore, crescere in panca come sul campo, vincere, affermarsi a livello internazionale, diventare ricco e corteggiato in Italia e all’estero. Con una piccante annotazione: sul campo era uno spettacolo, realizzava pienamente l’immagine del calciatore moderno grazie a un’innata qualita’ tecnica che lo faceva insieme uomo-squadra e realizzatore, suggeritore e protagonista, solista e finalizzatore: insomma leader insostituibile. Legato a un modulo tattico versatile come il 4-3-3 Roberto va cercando giovani calciatori non gia’ ” schedati” dai tecnici di club ma ancora malleabili, addirittura non ancora responsabilizzati sul campo: cosi’ e’ nato Zaniolo, con Biraghi, Tonali, Orsolini, Barella, Castrovilli, Mandragora, Meret, la carica dei 22 (i ragazzi del 97) controllata da Sirigu, Bonucci, Jorginho e dalle stelle come Ciro Immobile, Chiesa, Bernardeschi, Florenzi, Insigne, Donnarumma, Belotti. L’han detta esagerata, l’Italia del 9 a 1 all’Armenia. No. Semplicemente felice.
MANCINI GARBATO ANARCHICO BORGHESE
Vuoi pubblicare i contenuti di Italpress.com sul tuo sito web o vuoi promuovere la tua attività sul nostro sito e su quelli delle testate nostre partner? Contattaci all'indirizzo [email protected]