Il Big Bang del welfare aziendale è avvenuto nel 2016. Oggi dopo tre anni dalla Legge di Bilancio che ha cambiato il mondo (e la fiscalità del settore) la rivoluzione del mercato è in pieno svolgimento. Luca Pesenti è stato tra i primi ad analizzare lo sviluppo del welfare aziendale in Italia. Professore Associato di Sociologia generale nella Facoltà di Scienze Politiche e sociali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha scritto Il welfare in azienda (Vita e Pensiero), che sarà disponibile in libreria dalla prossima settimana. Con Pesenti ne abbiamo anticipato alcuni contenuti.
Una seconda edizione del volume del 2016. Ma totalmente rinnovata.
Per forza. In tre anni è cambiato tutto. E molto cambierà ancora. In questi tre anni ho avuto l’opportunità di guardare a questo mondo da vicino, come ricercatore e come consulente. Ho provato a fare una sintesi.
Il dato più eclatante di questo periodo esplosivo, dopo quello che lei ha definito il Big Bang del 2016?
A conti fatti, possiamo sostenere che questi tre anni sono stati quelli di un vero e proprio Big Bang del welfare aziendale. La cosa più significativa credo che sia stata la dinamica di crescita del mercato dei provider, cioè di quei soggetti di impresa che sono partner delle aziende nella definizione e nella gestione dei piani di welfare aziendali, che siano contrattati o erogati come liberalità. Ne abbiamo contati 92.
Troppi?
Tanti sicuramente. Sono 92 aziende (ha collaborato alla ricerca Giovanni Scansani) che ne servono meno di 20mila, tante sono le imprese che hanno adottato piani di welfare in Italia. Per un fatturato complessivo che è all’incirca di un miliardo di euro.
Destinato a crescere? Quanto? La ricerca Censis-Eudaimon stima un potenziale di 21 miliardi.
Crescerà sicuramente. La differenza verrà fatta dalle Pmi. Mentre oggi le grandi aziende si dotano tutte di piani di welfare, nelle Pmi l’incidenza è inferiore all’1%. Sappiamo che le Pmi in Italia rappresentano il 95% del totale delle imprese e occupano oltre l’80% dei lavoratori.
Una prateria da percorrere, una nuova frontiera da raggiungere.
Certamente c’è un vento che soffia a favore. Una grande attenzione di popolarità. Nel libro segnalo che questo vero e proprio boom di popolarità, ha portato a metà del 2019 a visualizzare oltre 750mila siti contenenti questo termine: welfare aziendale. E poi c’è stata quasi una benedizione. L’apice di questo picco di interesse è probabilmente arrivato il 7 settembre 2018, giorno in cui sul «Sole 24 Ore» apparve una lunga intervista a papa Francesco in cui (tra le molte cose dette) indicava proprio il welfare aziendale come uno dei modi per perseguire uno sviluppo integrale capace di rimettere al centro la persona e la famiglia.
Attenzione crescente perché il welfare pubblico è calante?
Sì e no. Le risorse impegnate pubblicamente nei sistemi di protezione sociale sono state in costante aumento. Nel libro ricordo alcuni dati. La spesa sociale in Italia è cresciuta costantemente negli ultimi vent’anni, passando da circa 200 miliardi di lire nel 1995 a quasi 99 miliardi di euro nel 2016. Si tratta di una crescita di oltre 6 punti percentuali se rapportata al PIL, un aumento molto robusto se si pensa che nello stesso lasso di tempo nei 15 Paesi originari della UE il peso della spesa sociale sul PIL è cresciuto di meno di 2,5 punti. Nel 2016, dunque, la spesa sociale in Italia era pari al 29,7% del PIL, contro il 23,3% del 1995. Non è per altro sostenibile neppure la tesi di una crescente tensione sulla spesa sociale a partire dal 2007-2008, come conseguenza delle politiche di austerity susseguitesi alla crisi economica.
E allora perché l’esplosione del welfare aziendale? C’è un quadro macro che sta cambiando: crisi demografica, nuove esigenze di assistenza sanitaria, anche a lungo termine, il mutamento delle famiglie e del loro ruolo…
Tutto vero. Il ruolo della famiglia ha generato un welfare particolare, che è destinato a essere integrato e modificato. Sempre nel libro ricordo che secondo le stime di MBS Consulting, oltre alla spesa out-of-pocket sanitaria, le famiglie italiane spendono infatti quasi 48 miliardi di euro per servizi di assistenza e cura, 10 miliardi per la scuola, 8 miliardi per previdenza e protezione sociale. In tutto, oltre 100 miliardi dunque, pari a 1/5 circa della spesa pubblica.
Torniamo alle aziende…
In verità sappiamo ancora abbastanza poco di quel che sta accadendo nella realtà delle aziende italiane, e quel poco che sappiamo rappresenta solo una parte (seppur rilevante) di quello che si può immaginare essere accaduto, perché non riesce a contabilizzare la componente di welfare unilaterale e volontario messo in campo dalle imprese.
Eppure c’è chi, come Tiziano Treu ha posto un dubbio sulla fiscalità generale che paga lo sviluppo del welfare e sulla coerenza di alcuni benefit aziendali. Nel suo libro lei ha citato le dichiarazioni fatte dal presidente del Cnel al nostro sito…
Infatti. Così come ho rammentato la replica del presidente di Aiwa, sempre su wewelfare.it, il tema è sensibile. Occorrono beni più solidi nel welfare aziendale, oltre ai flexible benefit. La componente flex è solo una parte aggiuntiva di una policy aziendale che deve essere più ampia e articolata. Vedremo ancora molti cambiamenti.
Il mercato dei provider è destinato a cambiare. Nel suo libro cita l’acquisizione di Easy Welfare da parte di Edenred così come quella di DoubleYou da parte di Zucchetti. In questi giorni Zucchetti ha acquisito anche Amilon.
Ritengo improbabile immaginare di assistere ad una ‘reazione a catena’ di ripetute acquisizioni. Non dovremmo dunque assistere solo ad una diffusa ‘razionalizzazione’ del mercato, che con ogni probabilità, stante anche i numeri che abbiamo indicato, resterà sufficientemente ampio e plurale pur in presenza di un numero molto limitato di big player. Più probabile la possibilità che i principali ‘reseller’ decidano di mettere a frutto l’esperienza maturata nel corso delle partnership a tutt’oggi attive passando dalla posizione attendista del rivenditore di portali di terzi a quella protagonista di un vero e proprio player del settore. Investendo su una propria infrastruttura o acquistando un provider ‘puro’ già attivo.
Una ultima questione, anzi due. Nel suo libro si pone la questione del Terzo settore e quella dello sviluppo ancora claudicante del welfare territoriale.
Beh, il Terzo settore è destinato ad assumere un ruolo importante. Cito il caso di CGM. Di certo la cultura del Terzo settore può introdurre qualcosa di più e di nuovo oltre al semplice approccio commerciale dei maggiori provider. Può avvenire un salto di qualità.
E sul territorio?
Il welfare nelle aziende ha ormai assunto dimensioni quantitativamente rilevanti e una maturità sistemica sufficientemente robusta. Invece lo sviluppo delle forme di welfare aziendale territoriale è più lento, anche se da tempo sono segnalate come una delle possibili risposte alla tiepida accoglienza che le PMI hanno dimostrato nei confronti di questi temi. Abbiamo iniziato a documentare l’esistenza di queste embrionali dinamiche di territorializzazione, in una ricerca da noi effettuata nell’ambito di un’indagine sugli elementi di innovazione del sistema di welfare italiano, mostrando la crescita di interesse da parte di soggetti come le istituzioni pubbliche locali e le associazioni di rappresentanza datoriale nazionali e territoriali, in collaborazione con alcuni provider. Qualcosa sta accadendo.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).