Settantasette anni fa ho vissuto la mia peste. La guerra. L’ho trascorsa, dal ’43 al ’45, sulla Linea Gotica. Vedevo passare, a seconda dei movimenti bellici, tedeschi, inglesi, Gurkha, marocchini, polacchi e americani. Li vedevo con i loro dodge, panzer, jeep, sidecar. Con i Messerschmitt e gli Spitfire. Stavolta non vedo nulla e nessuno, a parte mille trasmissioni tivu’ che non fanno chiarezza. Anzi. Dalla Paytv a Palazzo Chigi. Sento tanta paura, registro decreti a singhiozzo. E’ anche la stagione degli opinionisti che continuano a trattare questo evento storico – feroce come la peste nera del 1350 raccontata da Boccaccio col “Decamerone”, quella del 1630 rivissuta da Manzoni sui “Promessi sposi” e la Spagnola del 1918 – come se fosse un telequiz. Come va? Quanti contagiati? Quanti morti? Quando finira’? Ma il massimo e’ “cosa nostra”: che fine fara’ il campionato? E la Champions? E l’Europa League? E l’Europeo 2020? Cosa fa l’Uefa, la nostra Europa? Piu’ o meno quello che fa l’altra Europa, il carrozzone istituzionale che vede i suoi soci – dalla Slovenia all’Austria, alla Polonia e via cosi’ – preoccuparsi solo di chiuderci fuori. Anzi dentro. L’Europa degli egoismi, dei premier cialtroncelli, l’Europa che augura la peste agli Altri senza capire che cosi’ non si ferma piu’. L’Europa all’italiana, perditempo e inesperta. Guardiamo al calcio (allo sport): erano tutti convinti, compreso il ministro dello sport, che le decisioni toccassero alla Federazione e alla Lega. Piu’ ignoranza che scaricabarile. Poi il governo ha deciso di chiudere, non le porte ma l’attivita’, e Rugani ha messo un robusto catenaccio sopra i lucchetti. Poverino, la solita vita della riserva, e cosi’ passera’ alla storia; ma alla fine dovremo essergli grati perche’ cosi’ il blocco e’ sicuro: e’ juventino, e’ importante, e il suo stop incolpevole spingera’ l’Uefa a presentare richieste di chiusura provvisoria dei suoi eventi all’Europa di Bruxelles che per ora sta calcolando quanto perdera’ vendendo meno camembert, maccheroni, wu’rstel, frika, pierogi ruskie e moussaka.
Il destino del Calcio ai tempi del Coronavirus
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