Gli italiani restano un popolo di risparmiatori, ma siamo oramai sotto alle medie europee. Anche perché investiamo troppo sulla casa, e manteniamo un livello di liquidità eccessiva sui conti correnti. È questo il quadro che emerge dall’Indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, realizzata dal Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi con Intesa Sanpaolo. Uno stato delle cose che a lungo termine non darà frutti positivi. “La liquidità sui conti correnti, costa, e non rende. Il risparmio monetario non serve a nulla”, ha allertato il presidente della banca Gian Maria Gros-Pietro, sottolineando come “servono investimenti, perché la domanda globale non mantiene i livelli di occupazione, e si deve aumentare il reddito”. Ma il valore delle case, calato mediamente del 2% all’anno dopo la crisi del 2008, ha complessivamente ridotto la possibilità di investimenti privati nel nostro Paese.
Eppure, nel 2019 come già da tre anni a questa parte, gli italiani sono sufficientemente soddisfatti del proprio reddito, con il 57,5% di loro che guadagna tra 1.500 e 3.000 euro, erano il 51,7% nel 2016.
Una situazione che consente al 52% degli italiani di risparmiare, in media mettono da parte il 12,6% del reddito, soprattutto nel Nord Est dove accantona il 63,8% della popolazione. Il primo obiettivo degli investimenti resta la sicurezza (62,2% degli intervistati), segue il bisogno di liquidità (37,9%). Il 63% dei patrimoni è rappresentato da case, che valgono in media 169 mila euro. Ma pochi vendono o comprano, appena il 3% degli intervistati, sulla casa si investe invece in ristrutturazioni e adeguamenti, o per avere un reddito a lungo termine, per garantire un’eredità ai figli.
La proprietà degli immobili spinge la ricchezza verso le fasce d’età più avanzate, tra chi ha più di 45 anni sono infatti presenti i tre quarti della ricchezza complessiva. Più in generale, ha spiegato Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, l’Italia però non ha una compressione della ricchezza nelle fasce più agiate della popolazione: il 10% più ricco possiede il 42,8% della ricchezza totale, in Germania il dato è invece del 59,8% e negli Stati Uniti si arriva al 79,5%.
Se la ricchezza è più diffusa, lo è anche l’ignoranza finanziaria: il 53,8% degli intervistati non è interessato a questo tipo di informazione, il 56% ha difficoltà a capire il rischio degli investimenti, il 44,5% nello scegliere il momento, il 33% non si informa sugli investimenti. Di fronte a questa complessità di apprendimento, sale il risparmio gestito, scelto dal 15,3% degli intervistati. Il risparmio gestito è privilegiato da chi ha un alto reddito (27,2%) e da chi è più istruito (31,7%), tuttavia, solo uno su quattro distingue i fondi dalle azioni. La sicurezza riscontrata nel risparmio gestito «fidelizza» gli investitori: sale al 39,5% chi ha più del 50% del patrimonio in fondi. Nel 2013 era il 18,7%. Parallelamente crolla la fiducia nel trading “casereccio”, nell’ultimo anno solo il 3,6% ha comprato/venduto azioni, erano il 22% nel 2003.
C’è quindi un’Italia ottimista, pari al 39% del campione composto da 1.073 individui, che durante i dieci anni post-crisi dichiara di avere realizzato almeno un investimento, prevalentemente nelle case e sulla formazione del capitale umano, le espansioni di attività sono al 10,4% e neo-imprenditorialità all’8,3%.
Questi ottimisti oggi guadagnano 283 euro in più al mese, e sono risparmiatori più ‘intenzionali’. Ma la buona volontà da sola non può bastare, ecco perché, sottolinea lo studio servono investimenti, anche per ridurre lo spread che pagano i nostri titoli di Stato rispetto a quelli tedeschi: basterebbe raggiungere i livelli della Spagna, che paga lo 0,76% in meno di interessi sui titoli di Stato, per avere risparmi nella spesa per interessi sul debito pari a 6,5 miliardi il primo anno, 12 il secondo e 34 miliardi dopo 7 anni.