L’uomo cattivo Lars Von Trier, il regista bollato come persona non grata sette anni fa per una infelice risposta sui nazisti data in conferenza stampa, torna a Cannes 71 con un film su un uomo molto più cattivo di lui… Un serial killer di nome Jack, di professione ingegnere (con aspirazioni da architetto) e con il volto di Matt Dillon. Ha l’inferno in testa, questo uomo cattivo, e ce lo racconta in cinque “incidenti” (come li chiama lui) scelti a caso tra gli oltre sessanta che compongono la sua carriera di assassino seriale. Più di sessanta efferati omicidi, stipati nella cella frigorifero che ha in casa e fotografati in pose artistiche per essere inviati ai giornali con la firma di Mr. Sophisticated: una storia lunga anni, che Lars Von Trier immagina ovviamente alla sua maniera, ovvero come un saggio sulla lucidità della follia omicida, cucito addosso a un personaggio che ha le stimmate del genio. Il meccanismo di proiezioni narcisistiche è da sempre ben oliato nella prassi registica di questo regista ossessionato dal culto di se stesso: il film è un labirinto di elucubrazioni teoriche spiattellate per oltre due ore e mezza, suddivise in 5 capitoli, uno per “incidente”, più un epilogo dantesco, con Bruno Ganz (l’angelo sul cielo berlinese di Wenders) che interpreta Virgilio, ovvero quel Verge che per tutto il film ha ascoltato pazientemente le narrazioni di Jack e che alla fine lo porta in gita turistica nell’inferno che ha costruito con le proprie mani. L’inizio è invece marcato dalla presenza di Uma Thurman, la Sposa tarantiniana che qui appare in versione di attraente signora, ferma con l’auto in panne sul ciglio della strada, che chiede aiuto a Jack e lo provoca sul suo aspetto da serial killer, sino a evocare il demone che sin dall’infanzia giace in lui. Un colpo secco di crik in faccia e la tentatrice è accontentata da Jack, mentre in sala ci si prepara al peggio che deve ancora arrivare: una sequenza di scene raccapriccianti che nella proiezione pubblica hanno provocato l’esodo della parte più sensibile del pubblico e magari anche di quella più annoiata… Ché, va detto a scanso di equivoci, “The House That Jack Built” non è proprio un horror in quota blockbuster: serrato sulle teorie del serial killer in cerca di punizione in un mondo che è ormai cieco di fronte all’orrore che ha sotto gli occhi e sordo alle grida di aiuto levate delle vittime, si arrovella su questo tutto sommato banale criterio morale al quale in fin dei conti si affida.
Nulla di più, con tanto di tirata di Jack sui nazisti e sull’Olocausto, chiaramente messa lì da Von Trier a scusarsi del “misunderstanding” di sette anni fa. Il che non ha certo evitato che il film venisse proiettato a Cannes fuori concorso e, per buona misura, privo della tradizionale sigla del Festival… Lars Von Trier se ne fa certamente una ragione, il film si spinge dove vuole senza remore, giovandosi della presenza di Matt Dillon tanto quanto del genio del suo autore. Peccato che “The House That Jack Built” segni un netto passo indietro di Von Trier rispetto ai livelli ormai raggiunti negli ultimi suoi lavori, da “Antichrist” a “Melancolia” sino a “Nymphomaniac”.
cau