A due anni di distanza dal primo capitolo di “Mektoub, My Love”, intitolato “Canto uno”, Abdellatif Kechiche torna per la seconda volta sulla Croisette portando in concorso a Cannes 72 la seconda parte della sua trilogia ispirata al romanzo di François Bégaudeau “La blessure, la vraie”.
“Intermezzo”, questo il titolo con cui arriva in una selezione last minute, è un film fiume che con le sue quattro ore di durata sfida le tempistiche dei festivalier e si propone come un’operazione a suo modo provocatoria. Esclusi i primi 30 minuti ambientati sulla spiaggia di Sète, nella Francia Occitania, il film si spinge infatti quasi in tempo reale nella cronaca di una lunga notte in discoteca, trascorsa dal gruppo di amici e parenti che è al centro di questo romanzo di formazione ambientato negli anni ’90, durante un’estate al mare in cui sentimenti, emozioni, contrasti e legami sono messi in gioco sulla linea di passaggio dell’età adulta. Il film è un esercizio di stile che si conclude in se stesso, un lungo intermezzo in cui Kechiche sembra voler lavorare più che mai sulla definizione di un rapporto con la realtà filtratto dalla percezione del corpo, dalla pulsionalità dello sguardo e delle relazioni in corso.
L’insistenza con cui il regista si concentra sulle forme femminili prosperose, giovanili, esposte e godute è indubbiamente l’elemento che si impone nell’operazione. Ed è una scelta sintomatica, visto che proviene da un regista arabo, che sembra qui voler raccontare un mondo ancora libero, non compromesso dagli integralismi, dalle paure, dagli odi incrociati, preso in una gioia del vivere che di lì a poco, si sarebbe spenta nelle paure e nelle tensioni sociali del terzo millennio. Detto questo “Mektoub, My Love: Intermezzo” conferma però i limiti dell’intera operazione elaborata da Kechiche: il film è chiuso in se stesso, nella sua ossessione rappresentativa, basato su una drammaturgia azzerata, ossessivo. Insomma, uno di quei lavori che bisogna prendere o lasciare, senza mezzi termini.
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