Una Spoon River alla fine del mondo è il dono d’apertura che Jim Jarmush fa al 72 Festival di Cannes: “I morti non muoiono” si è offerto alla soirée d’ouverture della kermesse spalmando sulla Croisette un clima stranamente soft, da commedia umana malinconica e dolente, un puro zombie movie che tinge di venature liricamente surreali l’iconografia classica dei morti viventi alla George Romero. È una sorta di riscrittura horror di una mitologia americana incarnata nell’epitaffio stralunato degli avi dimenticati, resuscitati da Jarmush come testimoni della non vita alla quale siamo ormai tutti condannati.
L’impianto è prettamente di genere: una cittadina di provincia, la varia umanità che ruota attorno al bar, alla stazione di servizio, allo spaccio, alla centrale di polizia… In tv si parla dello spostamento dell’asse terrestre causato da una sconsiderata operazione di fracking sui ghiacciai polari e infatti il sole non tramonta più, la luna emana strani bagliori, il tempo s’è fermato e, nel cimitero, la terra che ricopre le tombe si smuove, sputando tra i viventi i corpi ritornanti dei morti. Che brancolano affamati e divorano i vivi. I primi due zombi sono Iggy Pop e Sara Driver, poi altri ne arrivano, di ogni foggia età ed estrazione, lasciando interdetti il capo della locale polizia Bill Murray e il suo vice Adam Driver, che poco possono fare se non guardarsi attorno stupiti e ripetere che c’è qualcosa di strano…. Jarmush illustra la classica materia narrativa horror come fosse un racconto di fiabe raccontato con ironia, dando forma alle paure come fossero sogni sospesi sul loro significato. Insomma il suo solito universo distratto e indolente, calato in una scena horror classica…
In “I morti non muoiono” le cose accadono perché sono scritte nel destino di un’umanità che ha segnato la sua fine, fatalmente. La paura che nutre la materia horror e ribaltata dal regista nella traccia di una poesia malinconica che contempla con rassegnazione i segni della fine del tempo. Bill Murray e Adam Driver sono il baricentro surreale di una comunità che incarna le figure classiche della tradizione americana: c’è il fattore reazionario interpretato da Steve Buscemi, c’è il vecchio nero tuttofare Danny Glover, c’è l’agente di polizia Chloe Sevigny. E poi ci sono i due outsider per eccellenza: Tilda Swinton, surreale proprietaria del locale obitorio che maneggia la sciabola con straordinaria maestria, e il barbone del posto Tom Waits, che vive nei boschi e tutto osserva da lontano, attraverso le lenti rotte di un vecchio binocolo. “I morti non muoiono” è esattamente quello che annuncia l’allitterazione fonetica del titolo originale (“The Dead Don’t Die”), una sorta di filastrocca intristita, in cui l’ironia rasenta il sarcasmo e la malinconia si dimentica della dolcezza, lasciando l’amaro in bocca: si ride, si resta sorpresi per un paio di sortite surreali che Jarmush si concede (da non rivelare per evitare i danni da spoiler), qua e la si percepisce qualche caduta di tensione: siamo in realtà lontani dagli esiti perfetti di capolavori jarmushani come “Paterson”, “Ghost Dog” o l’altro horror “Solo gli amanti sopravvivono”. Ma “I morti non muoiono” rimane di sicuro come il film più duro, triste e spietato di questo poeta della macchina da presa, quello in cui si canta la pietà per quei morti che sembriamo un po’ tutti noi, all’alba dei nostri giorni.
cau