Il dolore e la gloria, come due facce della stessa medaglia sul petto del grande Pedro Almodovar, che torna puntuale sulla Croisette con il suo nuovo film, il più autobiografico di una carriera tutta costruita sulla rifrazione tra vita personale e arte offerta al mondo. E c’è commozione a Cannes per “Dolor y Gloria”, un sentimento diffuso di rispetto e partecipazione di fronte a un’opera che, nella capacità di affabulare il percorso di una vita senza vestire l’autobiografismo immediato, riesce a trovare il tono di una sincerità disarmante e fiduciosa nell’affetto del pubblico. Applausi condivisi sulla Croisette e in gran parte del mondo (Italia compresa) dove il film viene lanciato in contemporanea con la presentazione nel Concorso di Cannes 72, a un paio di mesi di distanza dal successo con cui è stato accolto dal pubblico in Spagna. “Dolor y Gloria” è una sorta di quaderno delle rimembranze almodovariane, che si affida alla figura di un famoso regista spagnolo di nome Salvador Mallo per raccontare, tra allusioni e illusioni, quello che è stato il suo percorso umano ed artistico. Non tanto gli eventi precisi, ma le suggestioni, gli stati d’animo, le sofferenze fisiche e spirituali, gli amori trovati, vissuti e persi, messi in scena nella tarda prospettiva di Salvador, un regista ormai inattivo e in crisi, interpretato dall’immancabile alter ego almodovariano, Antonio Banderas, con una intensità sobria e profonda che ne fa forse la migliore prestazione della sua carriera.
Salvador vive chiuso nella sua casa museo, stretto nella solitudine e aggrappato ai dolori fisici che lo attanagliano. La cineteca ha restaurato un suo vecchio capolavoro e per lui è l’occasione di ricucire lo strappo che aveva consumato all’epoca col suo attore preferito, Alberto. Ma il passato è per lui un fiume in piena che porta con sé i ricordi dell’infanzia, dell’amatissima madre, dei suoi primi desideri sessuali, del suo unico grande amore perso. Il film ha una tessitura a trama larga, un intreccio vago di ricordi che si succedono nella mente e nel corpo dolorante che Salvador cerca di tenere a bada con l’aiuto delle droghe. Il punto focale del film resta l’atto del ricordare, il valore del rivivere gli eventi trascorsi per mettere ordine nei sentimenti confusi e provare a raccontarli in quello che è poi il film che stiamo vedendo. La sincerità e la menzogna sono gli estremi che si toccano per costruire un arco esistenziale in cui Almodovar raggruma il senso stesso del suo filmare. Il film è alto nella sua semplicità, universale nella capacità di ritrovare il dettaglio, la luce di una memoria, i colori di una casa. La riconciliazione con se stessi, sembra dire Almodovar, passa per la capacità di narrarsi non tanto con sincerità, quanto con verità artistica. L’affabulazione, l’atto creativo, la scrittura, il disegno sono il punto fermo di quel flusso continuo di coscienza e di incoscienza che è l’esistenza. La traccia che resta. E “Dolor y gloria” sa farsene carico con una perfezione di messa in scena che fa ritrovare il miglior Almodovar da lungo tempo a questa parte.
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