ADDIO PELE’, IO LO CONOSCEVO BENE

Abbiamo perduto un campionissimo, ho perduto un antico amico che mi ha consentito di essere orgoglioso di averlo visto giocare fin dal 1962, e poi di aver cominciato a raccontarlo, e ancora di averlo incontrato personalmente per poter usare quella frase che fa credibile e invidiato il cronista: io lo conoscevo bene. La prima volta l’ho incontrato “in borghese” a Riccione, per una strana vacanza, nel 1965, l’ultima, quarant’anni dopo, a Milano, e appena mi disse “ciao, come stai?”. In una battuta la storia di un uomo umile con un sorriso dolce non da divo in posa ma da protagonista di una storia per bambini che sono diventati grandi con i suoi mille gol, i suoi mille movimenti di danza, di agonismo artistico al quale mancò – e glielo dissi – un passaggio in Europa per potersi mettere alla prova davanti a pedatori capaci di fermare un treno in corsa. Ebbe solo il tempo di assaggiare in amichevole il milanista Trapattoni e il romagnolo Santarini. Dal 1962 non ho perso una delle due imprese, i tre titoli mondiali, l’eterna vittoria con il Santos, ma questo lo sanno tutti, anche se solo i più fortunati hanno colto quel suo volo d’angelo a Città del Messico, all’Azteca, quando ha superato Burgnich e segnato un gol magico all’Italia nella finale del 1970.
Ma se mi disse “ciao come stai?” non era per il lontanissimo incontro riccionese ma per una successiva tournèe in Canada e New York con Santos e Bologna e un ultimo contatto quando un’agenzia vendeva i suoi commenti ai mondiali. Una cifra. Riuscii a contattarlo. Me li regalò. Con lui – dopo Diego Armando Maradona e Paolo Rossi – vorrei chiudere non solo un anno triste ma anche il mio povero Spoon River.

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