ADDIO AL NEWSEUM, IL MUSEO DI GIORNALISMO DI WASHINGTON

Il declino della carta stampata e la crisi dell’informazione, mietono una vittima eccellente. Una vittima collaterale, si potrebbe dire. Chiude, a distanza di 11 anni dalla sua fondazione, il Newseum, il Museo del Giornalismo di Washington. Un vero e proprio santuario della comunicazione. Lo scorso 31 dicembre è calato il sipario. Situato al 555 di Pennsylvania Avenue, tra la Casa Bianca e il Congresso, il museo raccoglieva al suo interno testimonianze dell’attività giornalistica o di eventi che si sono imposti tra le colonne dei principali quotidiani d’oltreoceano. Come la prima pagina del New York Times dedicata alla nascita della tv, nel lontano 1927, o come parte dell’antenna del World Trade Center danneggiata dagli attentati dell’11 settembre. E ancora microfoni, macchine fotografiche, telecamere, computer, macchine da scrivere, cellulari. Per intenderci tutti strumenti, tutti “arnesi da lavoro” di ogni buon cronista. Oggetti simbolo di fuoriclasse dell’informazione, feticci come gli occhiali del giornalista del Guardian Ben Jacobs fracassati in un momento di collera dal deputato repubblicano Greg Gianforte o addirittura la porta scassinata del Watergate.
La fine del museo sembra il paradigma del settore che ha esso stesso celebrato. Come l’informazione, anche il Newseum non ha retto alla crisi tanto da costringere la fondazione proprietaria a cedere, sotto una montagna di dollari, ad altri investitori.

Il palazzo è stato venduto, per la cifra di 372 milioni, alla John Hopkins University. Addio quindi ai 23.000 metri quadrati di museo, ai quindici teatri e alle quattordici gallerie. Addio al noto padiglione dedicato al simbolo massimo della Guerra fredda, il “Newseum’s Berlin Wall Gallery”, con la più grande collezione di sezioni del muro di Berlino fuori dai confini tedeschi.
Tra le sezioni più note la “Today’s Front Pages Gallery”, la raccolta delle prime pagine di oltre ottanta quotidiani internazionali (nessuno però italiano).
La nascita del Newseum si deve ad Al Neuhart, fondatore di Usa Today, che con la sua creatura ha cercato di raccontare la storia contemporanea attraverso gli occhi dei media. E per disegnare la sede, l’ambiziosissimo magnate ha affidato il progetto all’architetto James Polshe. Una scelta per glorificare la professione del reporter.
Il sipario che cala – promettono dal 555 di Pennsylvania Avenue – non è comunque la mannaia che si abbatte sull’idea. Carrie Christofferson, direttrice del museo, ha assicurato: “Presto avremo una nuova sede”.
Nell’attesa di trovare un nuovo edificio più spartano quanto autorevole, ci si interroga però sulla fine dei reperti raccolti, centinaia di “frammenti” che attraverso gli occhi dell’informazione hanno raccontato gli Stati Uniti e parte del mondo. Alcuni cimeli sono già finiti in un magazzino, altri “oggetti sacri” starebbero tornando ai legittimi proprietari.

Certo è che, in un periodo di forte crisi per il giornalismo, la fine del museo che lo celebra è una cattiva notizia. Ma come per la stampa, dopo l’avvento di internet, si attende anche per il Newseum una nuova stagione.
Il giornalismo ha bisogno di una nuova casa che ne testimoni le imprese. E non importa se rischia di essere un progetto autoreferenziale, l’importante è raccontare. La stessa missione del giornalismo.

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