Tra le esternazioni sui tantissimi propositi che ha nella sua agenda di governo, al super Ministro Di Maio non poteva mancare l’interesse ad intervenire sulle regole della rappresentanza sindacale. Chissà cosa ci trovano i neofiti del potere contemporaneo, nel voler dimostrare che se vogliono, possono mettere sotto tutela dello Stato le associazioni del lavoro. Aldilà di come là si pensa sul Sindacato, i nuovi politici di questo ultimo decennio sono disturbati da tutto quello che risulta ‘organizzato’.
Pur in evidente difficoltà, i sindacati dispongono di una rete vasta di attivisti, un seguito di milioni di lavoratori iscritti che pagano per aderire alla organizzazione sindacale, in un mondo politico odierno dove nessuno paga per affiliarsi, perché è già tutto pagato; chissà da chi, da quando non ci pensa più lo Stato. Questi aspetti non sono graditi ai rappresentanti politici, il cui potere, molto fugace, risente fortissimamente dei volubili favori degli elettori: per questo sottoposti alla esigenza di spettacolarizzare la proposta politica, che inevitabilmente li porta all’esaurimento della propria esistenza in campo, strangolati proprio dalla loro incapacità di compiere ciò che così verbosamente annunciano.
Due realtà che sono oggettivamente contrapposte dalle prassi della loro vita associativa ed anche dalle culture di fondo che le ispirano, così lontane dai primi passi della esperienza repubblicana: la politica sostanzialmente è sostenuta ormai quasi solamente da referendum giornalieri (i sondaggi), e con vita interna democratica appena riconoscibile rispetto alle indicazioni della Carta costituzionale; le associazioni del lavoro e le altre in generale, sostenuti da persone che iscrivendosi, hanno la possibilità di utilizzare gli strumenti di cui le associazioni dispongono, (talvolta concretamente, talvolta teoricamente), e hanno il diritto di intervenire nella vita interna, così come imperativamente prescritto dalla Costituzione Repubblicana.
Se i primi vogliono rimettere in discussione tutto, anche quello che funziona, i secondi mostrano impaccio nel cambiamento. È quindi la diversa natura che li anima, a spingere chi ha più potere (la politica), a modificare, soggiogare o peggio a mettere ai margini il sociale organizzato. Nel caso di Di Maio, quando dice che vuol mettere a verifica la rappresentanza del Sindacato, non fa altro che dichiarare la sua ostilità e volontà di dominio, su questa parte della società che è lontana dal piegarsi alla accettazione dei paradigmi organizzativi e culturali che lui propugna. Ma nel caso specifico della rappresentanza, sbaglia ancor più.
Il Governo è in diritto di chiedere conto al Sindacato, in quanto datore di lavoro, sulle impostazioni sindacali dell’impiego pubblico, ma lo può fare nell’ambito delle norme di legge di derivazione contrattuale, stipulate da esso stesso con il Sindacato come controparte. Queste norme, stabiliscono chi rappresenta chi, quando ogni tre anni si vota negli uffici pubblici con percentuali di votanti mai sotto l’80%. Ecco perché non è chiaro quale verifica intenda fare. Nel privato poi, le rappresentanze si esprimono con associazioni di lavoratori e dell’impresa, che stipulano accordi anche unitariamente, alla sola condizione di rappresentare lavoratori in maggioranza in azienda per i contratti aziendali, così come nella contrattazione nell’ambito nazionale. Il riconoscimento lo ottengono dalla sufficiente maggioranza di iscritti che li abilita a stipulare accordi, ma anche dalla controparte imprenditoriale, che certamente non rischia contenziosi costosi, sottoscrivendo accordi con realtà non rappresentative.
Comunque le associazioni del lavoro hanno accordi interconfedederali sottoscritti da imprenditori e lavoratori, che regolano nel privato la loro attività contrattuale, e questo basta ed avanza per evitare che i governi di turno si intrufolino nelle loro autonomie, per inquinarle e sottometterle. La volontà sottolineata dalla Costituzione, di preservare la loro preziosa autonomia per il sistema degli equilibri di potere nella società, è stata reiteratamente espressa proprio per evitare che il potere politico, forte dei poteri conferitegli dalle funzioni di governo, potesse utilizzarli per sottometterli ai loro voleri. Ecco perché Di Maio farebbe bene a ponderare quello che dice e che fa. Ma farebbero bene anche le associazioni, a partire da quelle del lavoro, ad aprire una discussione più evidente su questi argomenti, così decisivi per il corretto funzionamento generale della Comunità nazionale. Farebbero bene ad avere più coraggio a trovare soluzioni intelligenti e moderne, proprio per evitare che la politica si faccia avanti per colmare i vuoti. Ma sembrano esprimere timidezza, forse in conseguenza dei tanti problemi e temi che non riescono a dominare e a rielaborare.
Raffaele Bonanni