ROMA (ITALPRESS) – Sulla mancanza di lavoro, sulla precarietà nel lavoro, sulla perdita di lavoro, si sprecano fiumi di parole ed allarmi senza fine. Gran parte della classe dirigente italiana, le usa esclusivamente indicando strumenti del passato, privi di senso per le dinamiche che oggi interessano le persone e le attività produttive. Il vicolo cieco, ad esempio, lo troviamo nelle iniziative abrogative del jobs act, nelle decontribuzioni degli oneri previdenziali per ottenere più occupati, nelle richieste di salari minimi, nei bonus una tantum per lavoratori. Proposte sbagliate e pannicelli caldi costosi, però redditizi per coloro in politica e nel sociale intendono catturare a piene mani consenso a buon mercato facendo leva sulla paura; costosissimi per le finanze pubbliche, e responsabili dei ritardi che provoca ai danni dello sviluppo. Dunque si perde tempo su soluzioni inidonee e nel contempo si rifiuta ogni scelta che costa fatica impegno, realismo e responsabilità. Si continua perciò a mostrare indifferenza o peggio ad osteggiare ogni legge ed ogni soluzione della contrattazione collettiva riconducibili all’obiettivo di adeguarsi alle organizzazioni del lavoro orientate alle nuove tecnologie digitali.
Esse vengono bollate inesorabilmente ed irresponsabilmente come portatrici di precarietà. Da troppi anni il lavoro italiano ha sofferto di ritardi e limitazioni, suggerite dal pregiudizio verso la modernità. Ma intanto i paesi nostri concorrenti non hanno indugiato, la loro produttività è aumentata, cosi come la stabilità del lavoro ed i salari, al contrario nostro che subiamo bassa produttività e bassi salari. Ed allora dovremo convincerci che le qualificazioni dovranno assumere i connotati idonei per il tempo che viviamo, ed ottenere riconoscimenti meritocratici. Ai criteri di misurazione oraria del lavoro ai fini delle retribuzioni, dovranno integrarsi quelli della ponderazione dei carichi di lavoro da assegnare ad ogni lavoratore, certamente più efficienti per misurare i risultati orientati alla produttività in ambienti assai avanzati tecnologicamente e nel lavoro agile. Un cambiamento tale che a quel punto ci farà superare la condizione di precarietà nel lavoro prodotta dai ritardi gravi, come quelli accumulati, proprio per averlo contrastato.
Chissà poi perché la battaglia senza quartiere non la si fa l’education orientata alle qualificazioni alte e medie per sostenere il cambiamento digitale applicato alle produzioni. Sappiamo che ormai non disponiamo di enormi quantità di qualificazioni occorrenti. Mancano più di centomila laureati itc, mancano un altrettanto numero di ingegneri, come quelli ad alta qualificazioni iscritti alle its, cosi tante altre medie qualificazioni adeguate alle tecnologie digitali. D’altronde gli italiani senza alcuna confidenza con il digitale sono 15 milioni, il 37% della popolazione. Ma se facciamo il confronto con la popolazione spagnola con il solo 12 %, comprendiamo di essere ultimi in Europa. Si può dire che il tempo straordinario di cambiamento del mondo, da noi viene vissuto male. Tant’è che assumiamo, in questi casi, comportamenti che sarebbero sconsigliabili anche nei tempi ordinari. Otterremmo una rivoluzione se il governo ponesse in cima al suo programma il riadeguamento del sistema dell’education in ogni ordine e grado della istruzione, formazione e percorsi universitari, riorientandoli alla visione dello sviluppo necessario. Ed anche coinvolgendo in una lunga e profonda discussione sulla istruzione e formazione, tutti gli steakholder, imprenditori e sindacati compresi. E poi spiegasse a tutti come stiamo usando i 60 miliardi stanziati dal PNRR per l’adeguamento tecnologico.
Sappiamo che dei 60 miliardi, 10% va destinato alla preparazione del nostro patrimonio umano, ma chissà cosa sta accadendo, datosi che il tema non è presente in alcun dibattito. Però si annunciano per la cosiddetta legge di bilancio 2025, come consuetudine, nuove decontribuzioni per aumentare l’occupazione soprattutto al sud, che tutti sanno non porterà occupazione, ed anzi sprecherà più di una decina di miliardi ai danni dell’equilibrio dei conti previdenziali, ma utili solo a dimostrare che il governo sta facendo qualcosa. Ma il Paese, e soprattutto il sud, aspettano un cambiamento che veda le forze politiche e sociali finirla con slogans e vecchie dispute sul nulla, osando di collaborare per scelte magari faticose, ma capaci di usare il motore Italia a pieni giri per garantire finalmente un futuro alla occupazione, ai salari ai tanti giovani del sud di preparare per fecondare il sistema produttivo e civile dei loro territori.
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