Nei giorni scorsi a Milano è stato ricordato Nereo Rocco, mitico personaggio rossonero, protagonista di un calcio che non c’è più. Quando lo conobbi, anno 1972, all’Assassino, ristorante milanese d’altri tempi, una sera mi chiese un passaggio. Abitavamo entrambi al Residence Piave. Ero nuovo dell’ambiente e per Tuttosport mi ero trasferito da Torino all’ombra della Madonnina. Lui intuì che avevo bisogno di qualche notizia e durante il percorso, sulla mia auto, mi disse con fare paterno: “Mi no so, chi far zogar in attacco: go tanti Golin. Pierino Prati, Chiarugi. Vedarem. Tu scrivi che go el dubbio, ma io no te conosso (non ti conosco). Te dovrei pagar la corsa del taxi, ma te do la notizia”. Non era una notizia, ma una dritta. Un modo come un altro di darmi una mano. Così cominciò un rapporto che durò nel tempo. Una volta a Catanzaro gli sentii gridare: “Romeo sta ‘ndrio (indietro) che perdemo un milion!”. Le disposizioni tattiche di Nereo Rocco erano improntate spesso al pragmatismo. Il tecnico triestino faceva della filosofia spicciola: “Se tiri e prendi il palo e la palla va dentro, ti xe un campion; se va fora, ti xe un cojon”.
Il Paron non sopportava le ingerenze e non sappiamo come se la sarebbe cavata nel Milan più moderno, con un presidente-allenatore come Berlusconi che “consigliava” ai tecnici come schierare la squadra. Uno dei luoghi comuni del nostro calcio è che Nereo Rocco fosse un incallito catenacciaro. In realtà lui si inventò il libero, scopiazzando un pò dal “vianema” del suo amico-nemico Gipo Viani, ma praticandolo quasi esclusivamente nel Padova, la cosiddetta squadra dei “poareti” (poveretti), che prima portò alla salvezza, poi al terzo posto con l’arrivo degli Hamrin, dei Brighenti, dei Rosa, cioè fior di giocatori. Il Paron era stato un buon giocatore nella Triestina e aveva pure disputato una partita in Nazionale contro la Grecia (4-0), da mezzala, al fianco di Monzeglio, Guaita e Peppino Meazza, uno dei miti del calcio italiano. Ma la grande popolarità la conquistò sulla panchina del Milan, anche se guidò pure Torino e Fiorentina senza molti risultati. Al comando dei rossoneri conquistò scudetti, Coppe dei Campioni, Coppa Intercontinentale e tutta una serie di trofei.
Nel Milan giocava con Mora-Altafini-Barison più Rivera e Sani e, successivamente, con Hamrin-Sormani-Prati davanti al “golden boy”: altro che catenacciaro! Voleva anzi che gli attaccanti di spicco come Altafini o Prati stessero là davanti e non tornassero mai indietro. Non gli piaceva che si sfiancassero: dovevano esser sempre pronti a colpire. Non erano tempi, quelli, in cui il premio partita veniva stabilito per contratto e arrivava direttamente sul conto dei giocatori, in banca, come al giorno d’oggi. Rocco amava la manualità, voleva far toccare i soldi ai giocatori perchè ne apprezzassero il valore. Si presentava negli spogliatoi con una borsa piena di banconote. Faceva i mucchietti, a seconda delle prestazioni dei suoi. A chi aveva giocato male, diceva: “Ti te ga fato il mona, te speta de men de lori” (Tu hai fatto lo stupido, ti spetta di meno rispetto a loro). Ve lo immaginate, oggi? Lui era il “Paron”: il padrone, appunto. Anche se qualche volta si vergognava di certe cose. Gli proposero infatti di firmare un contratto pubblicitario per una industria di abbigliamento e gli diedero un pò di soldi e quattro vestiti nuovi. Lo fotografarono elegante, in tutte le pose. Quando dava le disposizioni per l’allenamento al suo vice, Marino Bergamasco, diceva solo: “Do giri driti, do giri campanon” (due giri correndo dritto, due a zig zag). E alla fine, per i tiri in porta, in palio c’era in premio l’anguria.
Un martedì, dopo una pesante sconfitta a San Siro con la Juventus (1-4), nel distribuire la posta (faceva anche questo, per controllare i suoi ragazzi), quando arrivò il turno di Sabadini – che aveva marcato l’attaccante bianconero Bettega, autore di una doppietta (un gol di tacco che restò emblematico) – fece finta di dargli una cartolina dicendo davanti ai giornalisti: “Ciapa, xe Bettega che te scrive e te ringrassia per i due gol, mona”.
La domenica prendeva in mano le maglie (numeri da uno a undici, a quei tempi) e le consegnava personalmente, quasi fosse una questione di fiducia, nelle mani dei giocatori. Se aveva un’incertezza, si teneva in mano l’ultima, quella in ballottaggio. Il rapporto con i giornalisti era rude o confidenziale. Mi chiamava “talian” (italiano) e un giorno che andai a Milanello con un vestito verde, mi disse: “Sta attento che non te magni un bove”, perchè allora tutt’attorno al ritiro c’erano i prati con tante mucche che pascolavano. Quando lo richiamarono in emergenza al Milan del dopo Marchioro non stava molto bene, si presentò ai cronisti amici che lo aspettavano davanti alla porta, si tolse il cappello di feltro, si inchinò, se lo rimise in testa e disse in tono solenne: “Ve spetavi che mi mori? Tiè…”. (Vi aspettavate che io morissi, tiè…). E ci fece il gesto dell’ombrello. Ma ne ebbe per poco.