ROMA (ITALPRESS) – Trent’anni! Una ricorrenza che oltre al doveroso esercizio della memoria verso una figura straordinaria come Paolo Borsellino, doveva segnare un passo in avanti anche in un altro esercizio doveroso, quello della ricerca della verità. C’era attesa per una sentenza , quella per il depistaggio nel primo processo sulla strage di Capaci, dove persero la vita oltre al magistrato cinque agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Detto in termini non tecnici si doveva dare una prima forma giudiziaria a una vicenda che ha poco di razionale, l’aver creduto al pentito quantomeno controverso Vincenzo Scarantino per tutta la prima fase delle indagini e per ben tre processi, mandando in carcere persone innocenti. Poi dal 2008 altri pentiti hanno scritto un ben altra versione dei fatti. L’idea, e il conseguente teorema accusatorio della Procura di Caltanissetta, è che Scarantino non fosse solo nei suoi film ma che qualcuno lo abbia indotto a dire cose false con metodi non proprio civili. Tre gli ex poliziotti indagati, uno assolto, per due riconosciuta la calunnia, in prescrizione visto il tempo passato, ma non l’aggravante mafiosa.
Ah il tempo che passa e che prescrive, e che si è già portato nella tomba personaggi che nel processo avrebbero avuto un ben altro peso, La Barbera, ex capo della Mobile di Palermo, il Procuratore Tinebra, l’ex capo della polizia Parisi. Alla fine il depistaggio inaudito dell’accusa, ha partorito, sul piano della verità giudiziaria, l’ennesimo nulla di fatto. Però quella parola, depistaggio, con quel suo campo semantico ricorrente quando si parla di servizi segreti e di storia italiana, rimane nell’aria, con il suo sapore inquietante e sempre imprendibile. I magistrati che hanno indagato sulla morte di Borsellino l’hanno messa per iscritto in un’altra versione semantica, una convergenza di interessi tra la mafia e altri soggetti, altre forme di potere, oscuro, deviato, contiguo alle istituzioni. Anche Moro fu ucciso per una convergenza, terrorismo, certo, ma anche strategie politiche, nazionali e internazionali. La strage di Via D’Amelio non poteva essere stata compiuta da quattro picciotti improvvisati, era evidente fin da subito. E Cosa nostra per correre un rischio enorme, come quello di eliminare un altro giudice simbolo come Falcone appena 57 giorni dopo Falcone, certo non si era mossa da sola.
Decine di libri, decine di bravissimi giornalisti hanno raccontato le ombre di tutta questa intricata vicenda a cominciare da quella tragica domenica di luglio: una 126 imbottita di tritolo parcheggiata sotto la casa della madre del magistrato quando in quella via doveva esserci il divieto, l’agenda rossa, con tutti i suoi segreti, sparita dalla borsa sul sedile posteriore della macchina, le tante figure strane che si aggiravano sulla sulla scena del crimine dove oltretutto erano arrivate troppo presto. Come se si trattasse della cronaca di una morte annunciata, fin troppo annunciata. Troppe orecchie avevano sentito, troppi occhi c’erano quel giorno ad osservare gli spostamenti di Borsellino. Come in tutti gli omicidi complessi, non voglio usare la parola complotto perché ci porta lontano, ci deve essere sempre una ragione profonda, un cui prodest. Cosa sapeva, o cosa poteva arrivare a sapere Borsellino per essere fermato dalla mafia ma non solo.
A rischio oltretutto di una reazione dello Stato, e popolare, che già c’erano state con Falcone e che poi in effetti ci furono, indignazione morale, disgusto dell’opinione pubblica siciliana e nazionale, inasprimento delle leggi. Forse, per i trent’anni, qualcuno dovrebbe decidersi a parlare. Per la verità e per la memoria di quell’uomo straordinario che alla giustizia ha sacrificato la vita.
(ITALPRESS).
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