Il welfare aziendale dopo il Covid-19: siamo alla quarta “puntata” della serie di appuntamenti proposti da Luca Pesenti, docente di Sistemi di Welfare Comparato e di Organizzazione e Capitale Umano all’Università Cattolica di Milano e da Giovanni Scansani, co-fondatore di Valore Welfare (gruppo Cirfood), advisor specializzato nella materia.
Sulla base delle premesse generali presentate nella terza puntata del nostro personalissimo “viaggio al termine della pandemia”, possiamo andare ai contenuti futuri immaginabili per il “nuovo” Welfare Aziendale (WA).
Per farlo, però, occorre innanzitutto provare a leggere entro quale profonda trasformazione valoriale e culturale saremo sempre più immersi.
Poco più di quarant’anni fa (era il 1977) lo scienziato sociale statunitense Ronald Inglehart nel suo libro The Silent Revolution, teorizzò l’inevitabile trasformazione dei valori occidentali nella direzione del post-materialismo: data per scontata la sicurezza materiale (economica e di salute), le generazioni divenute adulte dagli anni Settanta in poi attribuiscono maggiore importanza a obiettivi come la capacità di autoespressione, l’autonomia, la libertà di scelta, l’ambientalismo.
Inglehart sosteneva che al crescere della prosperità, tali valori post-materiali sarebbero gradualmente divenuti egemonici all’interno delle società post-industriali grazie ai processi di sostituzione intergenerazionale. Fino a un certo punto le cose sono effettivamente andate in quella direzione. Dagli anni Settanta – dati per scontati alcuni elementi basici (benessere economico, salute, pensione, sicurezza) – l’Occidente ha effettivamente “virato” il proprio impianto culturale verso nuovi valori legati ai “nuovi diritti” (l’ambiente, la “qualità della vita”, il wellness, ecc.).
Un processo strettamente collegato alla nascita e allo sviluppo della società consumista di massa e all’idea che il benessere potesse crescere in modo continuo permettendo a ciascun individuo di trovare la propria strada sviluppando una propria definizione di benessere.
Poi però qualcosa ha cominciato a rompersi. A seguito della tragedia dell’11 settembre 2001, la domanda di “sicurezza” ha ricominciato a crescere, e dopo il crack finanziario del 2007/2008 anche la domanda di protezione sociale è tornata prepotentemente in auge. Per certi versi, una parte della società occidentale, da ormai quasi due decenni, sembra essere tornata a valori “materialisti”, tanto da spingere lo stesso Inglehart (insieme alla collega P. Norris) a identificare l’emersione di un “cultural backlash“, una reazione valoriale anti-postmaterialista, incarnatasi poi politicamente nei movimenti populisti e sovranisti. Ecco, dentro questo quadro l’Occidente al tempo del Covid-19 scopre che, oltre alla sicurezza e alla protezione sociale, si sta indebolendo anche un terzo, grande pilastro della modernità: quello della salute.
E che al contempo, anche il benessere economico non può più essere dato per scontato. Stiamo dunque tornando (almeno per una parte crescente della popolazione) alla casella di partenza, dopo esserci illusi di aver costruito il migliore dei mondi possibili e aver addirittura vaneggiato un futuro liberato dal problema del lavoro.
Anche le strategie di WA non potranno non tenere in considerazione queste dinamiche.
Il lavoro da mettere in sicurezza
Facile preconizzare (e vivamente sperare) che il WA prossimo venturo dovrà passare, anzitutto, per una più strutturata attività di prevenzione e gestione della sicurezza organizzata su una più vasta scala d’interventi, dovendosi ora includere nel set dei rischi (attuali e futuri) anche quello di tipo pandemico (con quel che conseguirà in tema di procedure, controlli e ridefinizione dei limiti della privacy da coordinare meglio con le più ampie aspettative di sicurezza collettiva).
Bene sarebbe se tali attività potessero coordinarsi con il Sistema sanitario nazionale (SSN) in un utile scambio di informazioni che tra loro aggregate sarebbero capaci di aggiornare il monitoraggio territoriale mettendo così a sistema, almeno su questo fronte, il tessuto produttivo e quello sociale complessivo.
È possibile, altresì, immaginare che possano essere definiti “protocolli territoriali” che tenendo conto delle condizioni socio-demografiche della popolazione e di quelle attinenti le patologie più diffuse, anche rispetto alla tipologia delle lavorazioni locali, impongano alle aziende l’adozione di veri e propri “piani sanitari” da certificare e sottoporre a periodici controlli, ampliando le responsabilità del medico competente e sburocratizzandone le funzioni. Ben più che una traccia per avviarsi verso questa impostazione è rappresentata dal recentissimo “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure di contrasto e contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto il 14 marzo scorso dalle Organizzazioni sindacali dei lavoratori e dalle Rappresentanze datoriali.
Il “nuovo” WA, dunque, passerà per una ridefinizione del concetto stesso di sicurezza sul lavoro (ampliando le funzioni del RSPP e del RLS) che sarà più ampia ed efficace (il coronavirus ci ha fatto scoprire che quasi nessuna azienda, anche tra quelli globali, aveva i DPI per affrontare l’attuale e non meno globale pandemia) e passerà anche per una rinnovata attenzione all’operatività degli interventi a tutela della salute, grazie ad un più diffuso sviluppo dell’assistenza sanitaria integrativa, all’investimento in polizze collettive ad hoc e nelle coperture LTC.
Il luogo di lavoro insomma – come recentemente in un’intervista rilasciata per “La Stampa” ha ricordato Marco Bentivogli (Segretario Generale dei metalmeccanici della CISL) – “deve diventare un safe-place: un posto assolutamente protetto, più della propria casa”.
Verso piani di welfare “neo-materialisti”
La prevenzione dei rischi sul luogo di lavoro è il primo passo, ma il WA del “dopo Covid-19” dovrà affrontare una sfida totalmente differente: quella del ritorno ancora più forte ed esplicito di un bisogno di protezione sui temi classici del welfare (salute, reddito, pensioni).
Gli anni che abbiamo di fronte, anche dopo il giorno in cui saremo stati capaci di sconfiggere definitivamente questo virus, porteranno con sé una richiesta molto più basica di quella cui la logica dei flexible benefit ci ha abituati. Prima di poter pensare a spendere il proprio budget di WA in viaggi (esotici o esperienziali che siano) o in altre forme di spesa in beni e servizi dell’area del lifestyle, i lavoratori richiederanno più frequentemente (e più probabilmente) altro: il carrello della spesa, la copertura dei costi per l’asilo nido o la babysitter, il rimborso delle spese per i libri o le scuole dei figli, convenzioni commerciali più vantaggiose, il rimborso per le spese sanitarie, l’accesso a prestiti, il sostegno per il pagamento dei mutui…
Messo in sicurezza (e reso più salubre e igienico) il luogo di lavoro e chi vi opera, si dovrà insomma rimettere mano ai piani di WA (anche a quelli esistenti). Ridefinire e ampliare, sia tramite la bilateralità (CCNL), sia in sede aziendale (contrattazione integrativa) le coperture garantite dall’assistenza sanitaria rafforzabili, se del caso, mediante prodotti assicurativi (caso delle LTC), rafforzare l’area della conciliazione vita-lavoro, potenziare i benefit di sostegno al reddito, ripensare le policy di ageing aziendale: saranno queste le prime piste sulle quali immaginare che il “nuovo” WA potrà incamminarsi. Se possibile, aprendosi al territorio e facendo sistema nella direzione di un vero “welfare responsabile”, per attivare maggiori e più stretti legami con l’offerta pubblica dei servizi sanitari e socio-assistenziali, nonché per coinvolgere il Terzo Settore con appositi accordi e partnership. Sempre che, naturalmente, soggetti pubblici e di Terzo Settore sappiano cogliere appieno l’opportunità.
Imparare per tutta la vita
La sicurezza, però non richiama solo l’idea dell’integrità psico-fisica e dell’essere posti al riparo da incidenti e malattie. Il panorama d’incertezza economica che caratterizzerà la fase di uscita dall’emergenza e la stessa successiva ripresa produttiva sarà inevitabilmente caratterizzato dalla perdita di posti di lavoro in conseguenza di ristrutturazioni e chiusure di aziende.
Emerge qui l’importanza di un’altra imprescindibile misura di welfare che in futuro dovrà essere sempre più assicurata: il long life learning come strumento di tenuta dell’employability delle persone da considerare come un pilastro irrinunciabile, perché le transizioni lavorative – già in sé diffuse nell’attuale generale processo di ridefinizione dell’organizzazione del lavoro – saranno ancora più frequenti e possibili in futuro. Una strategia di people management che non includa questo tema sarebbe miope ed un piano di WA che non includa questo tipo di percorso potrebbe rilevarsi, nel tempo, gravemente deficitario.
E non è solo la formazione in vista del rafforzamento della propria capacità di generare reddito, tramite il lavoro, a dover essere considerata nello scenario prossimo venturo.
Il reddito ed il proprio profilo economico, nel panorama fitto di incertezze che ci attende, dovrà poter essere rafforzato non già e non solo con misure dirette (delle quali il WA, inteso come strumento di sostegno, è una tra quelle possibili), ma si dovrà espandere includendo misure come, ad esempio, la formazione finanziaria perché è a tutti ben noto come in Italia il grado di conoscenza media della materia sia basso ed è facilmente ipotizzabile che in un panorama incerto come quello che ci attende, per i più sarà molto (o ancor più) difficile orientarsi.
E per restare ancora sul tema della formazione, assisteremo forse a una più diffusa presa di coscienza che “fare welfare” in azienda non potrà prescindere dalla formazione dei beneficiari ad un suo “uso” più consapevole e lungimirante. Sarà forse meno trendy raccontare nei convegni di aver spinto verso la previdenza complementare e l’assistenza sanitaria integrativa, ma sarà stato anche molto più utile, in chiave prospettica, rispetto all’aver messo a disposizione gl’immancabili buoni benzina e le divertenti e post-materialistiche GiftCard.
Il benessere digitale
L’emergenza Covid-19 ci ha messo di fronte anche alla più grande (ed improvvisa, oltre che nella maggior parte dei casi anche improvvisata) prova di digitalizzazione di massa del lavoro da remoto. Il “nuovo” WA sarà allora anche interessato a dare risposte ad una nuova richiesta di benessere di cui si sente la crescente necessità a fronte dell’uso delle innovazioni tecnologiche che ormai connotano il lavoro e la vita stessa, tra loro spesso mixate nello (e dallo) stesso device che abbiamo a disposizione.
Alludiamo al benessere digitale che non è solo questione di dotazione di strumenti, di velocità e di qualità dei collegamenti o di formazione per lavorare in remoto (una questione che investe anche un tema di equità perché forte è ancora un certo digital divide all’interno delle stesse aziende), ma è ricerca e rispetto di un maggiore equilibrio tra la propria dimensione soggettiva (sempre più sussunta dal lavoro) e il “carico” della componente dovuta alle sollecitazioni digitali complessive della vita considerata nella sua interezza. Il diritto alla disconnessione, certo. Ma c’è molto di più e alcuni psicologi del lavoro hanno sviluppato approcci originali per conciliare l’ambito del lavoro con quello privato, anche rispetto alla dimensione digitale nella quale entrambe le sfere sono ormai collocate e vissute.
Meno flex, più people care
Alla luce di tutte le considerazioni che abbiamo in precedenza proposto, il “nuovo” welfare d’impresa – prima ancora che guardare a defiscalizzazione e decontribuzione di benefit e premi – dovrà volgere il suo sguardo all’organizzazione del lavoro per renderla coerente con le nuove policy di prevenzione e sicurezza (quelle attuali legate all’emergenza e quelle future, associate alla prevenzione ed al corretto fronteggiamento dei rischi). Significa ripensare turni, trasferte, flussi di ingresso e uscita, zone comuni (come spogliatoi, mense, sale riunioni, aule di formazione), ridefinire gli interventi di pulizia e sanificazione di ambienti e attrezzature.
Per quanto riguarda il WA in senso stretto, crediamo che inevitabilmente dovranno trovare maggiore spazio soluzioni che limiteranno l’impostazione flexible dei benefit sin qui concessi per fare spazio a una maggiore adozione dei servizi di people care, intesi sia con riferimento ai lavoratori quali beneficiari diretti degli interventi, sia considerandone la portata extra-individuale che finisce per includere il nucleo familiare e quindi, in particolare, i figli minori e gli anziani. Salute, reddito, pensioni: il ritorno dei bisogni “materialisti” su cui si è costruito il modello classico del welfare europeo rappresentano non più “una” sfida, ma “la” sfida per il futuro prossimo del WA nel nostro Paese.
Ampliare i piani di WA alle sollecitazioni che abbiamo descritto ne rafforzerà gli effetti ed aiuterà ad accelerare quel processo di neo-umanesimo che il lavoro ed il suo futuro sempre più richiedono.
Al crescere dell’impatto delle tecnologie e degli effetti della ridefinizione dei processi produttivi (anche in conseguenza delle crisi e non solo delle crescite), quello di cui si sente e si sentirà sempre più bisogno non sarà mai scritto in un software, né sarà mai racchiuso in qualche componente hardware di ultima generazione: parliamo dell’apporto della pienezza umana nel (e per il) lavoro e della sua piena umanizzazione per uno sviluppo realmente integrale delle persone e delle collettività.
(ITALPRESS/WEWELFARE.IT).
Welfare aziendale dopo covid-19, vince il “People Care”
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